Il suo vero nome era Giulio Tavernari (Torino, 1917 – Roma, 1986). Fu scrittore e giornalista, vincitore del Premio Viareggio nel 1980 con “Le porte di ferro” (uscito nel 1979) e del Campiello nel 1974 con “Alessandra” (uscito nello stesso anno).
Altre sue opere furono: “Rancore“, 1946; “Sul ponte di Dragoti bandiera nera“, 1952; “La fortezza del Kalimegdan“, 1956; “Calda come la colomba“, 1971; “Il principe di Capodistria“, 1976; “Albergo Minerva“, 1982.
Si apprende dai cenni biografici stesi dallo stesso autore, che ebbe una vita politicamente molto impegnata, testimoniata da un’intensa attività di giornalista svolta soprattutto nei Balcani. La nota si conclude: “Vivo in una casa dell’Attica con eucalipti, vigna adagiata sull’argilla, gatta dalla testa piccola e le volpi all’imbrunire.” Scelte definitive di vita che richiamano alla mente quelle, ad esempio, di Eros Sequi e di Fausta Cialente.
Il romanzo narra la storia di un diplomatico che sceglie di lasciare l’Italia per un’isola (Rodi) nelle regioni dell’Attica, e del suo triste amore per la moglie Alessandra.
Il presente e il passato si alternano ed anche si mescolano dentro una scrittura malinconica e riflessiva.
La sensazione che si prova è di un disegno che vuole essere consapevolmente sfuggente, non mai compiutamente definito, consegnato al flusso del tempo e della memoria.
Al consolato giunge una lettera, riconosce la calligrafia: è di Alessandra, sua moglie “civile e legittima.”, che non vede da dieci anni. Non ha il coraggio di leggerla. La nasconde.
È la paura di contaminare la parte più preziosa della memoria, quella che dà senso ai suoi giorni: “La stessa paura di crollare di quando m’accorsi che Alessandra non era tornata.”
Alessandra arriverà nell’isola tra poche ore proveniente da Odessa, dove si è tenuto un congresso medico. Tutto al consolato è pronto per riceverla.
Il momento della paura e forse della gioia inattesa è preceduto da una quasi gotica visita al cimitero cattolico, dove il protagonista si muove tra tombe abbandonate e foto polverose e ingiallite. Insieme con il becchino Visentini vi ha portato due cassette in cui ha riposto le ossa di due soldati italiani.
Terra ha paura della felicità. Non la crede possibile in questo mondo. Forse perfino che questo mondo ne sia indegno.
L’arrivo di Alessandra riaccende in lui una tale paura. Si astiene dall’inciderla, identificarla, conoscerla. Il rapporto con la paura pare coperto da una velatura quasi impalpabile ma presente e decisiva. I sentimenti teneri, sempre immersi nella memoria malinconica, si trasformano in dolenti e sottili ferite dell’anima. Alessandra pare stanca, lontana. Un sentimento di morte striscia insinuante tra i due. Terra ne delinea contorni eterei, fragili. Come anime.
Nella sua prosa c’è la poesia che nasce dalla indefinibilità delle cose che ci stanno intorno. Perfino i colorati mercati orientali si caricano dell’insicurezza e dell’imponderabilità della esistenza: “Forse sarà finito per me il tempo dei banchi di nebbia, degli sbarramenti nella memoria per contenere il disordine della solitudine.”
Gli studi e le ricerche che sta compiendo su di un personaggio storico, Sophie de Marbois Duchessa di Plaisance (1785-1854), che si porta in Grecia, chiusa in una bara “sigillata di vetro e argento”, il corpo della figlia, danno ancora più pregnanza a quel clima un po’ lugubre e di attesa che circonda il romanzo.
Alessandra è malata, il cuore le dà affanno, debolezza. È tornata da lui poiché sa che se dovesse morire “non mi lascerai chiudere e sprofondare.” Vuole essere cremata e il protagonista/Terra glielo ha promesso: “E allora le prometto con irta eloquenza che le sue ceneri saranno chiuse in un’urna, che godrà dell’aria del mare verso Zefiros e delle luci del giorno e della notte.”
Un’atmosfera mitica non lascia mai il romanzo. Tutti i personaggi sembrano immersi in un passato in cui ancora si muovono gli antichi dei, ed essi stessi paiono assumerne le sembianze. Intorno, il presente subisce una continua ritorsione verso il passato: “Andare nella pianura di Ermete dove vivono da mille anni gli ulivi dai tronchi mostruosi.” Si ha la sensazione che la malattia di Alessandra sia il segno di un divenire che non può allignare in quei luoghi: “Pensai ai grandi venti che passano rapidi sull’isola, più alti del profeta Elia.”
Una cantante con cui si intrattiene, Arghirula, sfuma in un’immagine che raccoglie soltanto il passato.
Alessandra appare sempre più sfinge che donna. I suoi ricordi giovanili sfumano anch’essi come un vento gelido che raffredda ogni memoria.
Tutto nel romanzo tende alla morte, o meglio: alla restituzione del presente al filo di una storia fuori dal tempo. Di questa restituzione abbiamo un preciso segno nella descrizione della morte di Alessandra: “Alessandra era scossa da un rantolo sempre più lento, poi sentii che la sua mano si distendeva fra le mie per scivolare via, trascinata dalla corrente di un alto fragore.”
Perduta per sempre. Irraggiungibile.