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Stefanone King. Attualità della droga

Creato il 23 settembre 2011 da Iannozzigiuseppe @iannozzi

Stefanone King

Attualità della droga

di Iannozzi Giuseppe

Stefanone King. Attualità della droga
Posso chiederle qualcosa su La storia di Lisey? Quando ha scritto la storia originale?

L’ho iniziata nella mia testa, poi l’ho messa nero su bianco e bianco su nero. Avevo bisogno di soldi. Ne ho sempre bisogno. Soprattutto dopo l’incidente che mi ha spezzato tutte le ossa. Ci ho lavorato in tutta fretta. Avevo bisogno di qualcosa da propinare al pubblico, o il mio agente m’avrebbe staffilato per bene. Per non dire di mia moglie, che spende e spande a destra, e a manca anche, cioè a sinistra: i suoi acquisti tutti in centro, nei negozi più in, e io a sgobbare, a cercare d’inventarmi una storia da poter spacciare per oro colato. Per farla breve: appena avuta l’idea l’ho realizzata, e chi s’è visto s’è visto. L’ho portata all’attenzione del mio agente – che non capisce un tubo così come gli editori che mi pubblicano – e gl’è andata bene. Quello è una testa di scimmia: mi stupisco ancor oggi di come abbia intelligenza sufficiente a fargli tenere così a lungo la posizione eretta. Se lo guardi da vicino, ma anche da lontano, inganna tutti: sembra proprio un uomo. Ma non lo è. Comunque… I soldi li ho presi subito e subito li ho spesi, o meglio: mia moglie li ha presi dalle mie tasche. Come sempre del resto. A me è restato ben poco, giusto per una sniffata di quelle veloci e a basso costo. Niente di particolare. Oggi tutti si drogano, tutti gli scrittori: e io, modestamente, tra alcol e droga, praticamente un vero Maestro.

Inizialmente, era un racconto breve?

Non sia ridicolo. Ovvio che no. Le sembra che io abbia mai scritto qualcosa di breve? No, ecco. Non scrivo cose brevi, non rendono: chi se lo compera un raccontino di dieci pagine? Solo un fesso. E poi, soprattutto, a me non me ne viene niente in tasca. Io non la faccio la beneficenza. Avevo in testa la storia di Lisey e l’ho gonfiata oltremodo, ci ho messo di tutto e di più: è un racconto di quelli che se non hai il colesterolo te lo fanno venire. Non ricordo, forse Michael Chabon mi chiese un racconto, io gli mandai un capitolo del romanzo, tanto quello non capisce niente. Era un capitolo del romanzo, di Lisey. Gliel’ho spacciato come un racconto, una cosetta d’una novantina di pagine. Lui se l’è preso – sì, proprio in quel posto. Non ha battuto ciglio. Anche per quel capitolo fui pagato e profumatamente: mia moglie appena arrivato l’assegno l’ha incassato e speso, in profumi soprattutto. Solita sfiga per me, che con gli spiccioli mi sono fatto appena una canna. Me la sono sparata e non ci ho pensato più: in quel momento ero a pezzi, letteralmente, non avevo altro da offrire a quel pirla. Però m’è andata bene. Sono un Maestro nel prendere per i fondelli la gente. Mia moglie è Maestra più di me, mi spenna che è una meraviglia: dopo anni di matrimonio non ho ancora capito come faccia, ma le riesce proprio bene. Mai che mi lasci qualcosa. Non c’è da stupirsi se sono alcolizzato e drogato perso. Mi meraviglio io stesso: con tutto quello che ho assunto sono ancora in piedi e vivo per giunta. Be’, quella volta m’hanno preso sotto; però nella vita capita a tutti di rompersi almeno una volta l’osso del collo. Insomma, poteva andarmi peggio.

Ma l’idea era sempre quella di scrivere un romanzo piuttosto che un racconto?

Sì, assolutamente.

Mi ha colpito il fatto che uno come lei, che ha messo tanto in risalto la cultura pop o gli eventi contemporanei, non abbia mai accennato a quello che è successo dopo l’11 settembre, a parte un accenno a George Bush. È stata una decisione consapevole?

Senta, non sono tanto deficiente da mettermi a scrivere sull’11 settembre per fare la figura dell’ennesimo pirla che ne parla per vendere. E poi è roba vecchia: non tira più, come i romanzi sul Vietnam. Perché mai avrei dovuto parlare dell’11 settembre? Non è roba commerciale. Lo era nel 2001, ora siamo nel 2006, quasi nel 2007 o giù di lì. Ho preferito metter su un vecchio 33 giri di musica country, uno spinello, e finita lì. Lisey non è una storia sull’11 settembre perché in tutte quelle pagine – inutili – c’è tutto un mondo interiore, il mio. Solo questo conta alla fine. L’11 settembre a me non m’ha colpito. Non ho idee in merito, non sono un attaccabrighe né uno che cerca guai. Parlare di quel giorno con chiarezza e senza peli sulla lingua non è redditizio, e poi, cosa più importante, chi ne parla finisce nei guai. Bush non è uno tenero. Sarà pure sciroccato quanto volete, ma l’FBI e la CIA se ti mordono il sedere è per fartelo sanguinare. Ho già abbastanza cicatrici in quel posto, non ho bisogno di aggiungercene delle altre.

È un romanzo situazionale, per usare il termine che lei ha usato nel suo libro On Writing, o prevale la trama?

Be’, è un pastrocchio: c’è di tutto. Un lettore ci ha visto pure la Madonna, pensi un po’ lei. Ma i miei romanzi sono così: ognuno ci vede quello che cazzo vuole, è questo il motivo per cui tirano e fanno impazzire la gente. Cell è un modello situazionale, c’è tutta quella merda sui cellulari, quel “se accadesse questo, cosa succederebbe?”. E c’è anche una cosa situazionale in Lisey riguardo ai manoscritti. Ho sempre avuto questa idea, su cosa poteva succedere se uno scrittore famoso lasciava dei manoscritti non pubblicati e arrivava qualcuno dopo di lui. In tutti i miei romanzi c’è uno scrittore: sono un repubblicano, ho bisogno d’apparire sempre, anche in ciò che scrivo. Devo essere io il protagonista del libro che sto scrivendo. La gente non se n’è accorta, non ancora, crede che i protagonisti dei miei romanzi siano proprio dei protagonisti creati, inventati: e invece no, sono io il vero protagonista, per quanto, per dovere di modestia, il più delle volte mi assegno una parte davvero piccina, ma non per questo insignificante.  Ha presente J. D. Salinger? Bene: quello non si sa se sia ancora vivo, che faccia abbia, se ha scritto in tempi recenti, ma soprattutto non si sa se sia mai esistito. Noi Americani siamo così: io penso che Elvis Presley sia vivo, già, magari adesso è a Parigi, in qualche locale fumoso a farsi succhiare l’uccello. Mi stia a sentire, gliene racconto una bella: Salinger è nel New Hampshire, ma dicono anche che scrive ancora e che ha scritto un mucchio di libri. Il mio curatore presso la Doubleday, Bill Thompson, mi ha raccontato una storia secondo la quale Salinger sarebbe andato nella banca dove ha una cassetta di sicurezza per depositare un pacco incartato più o meno grande così (fa un gesto osceno portandosi le mani sulla patta del pantalone) e una donna gl’ha chiesto: ‘Mi scusi, signor Salinger, è un nuovo libro?’. E lui ha risposto: ‘Sì’. E la donna ha detto: ‘Lo pubblicherà?’. E Salinger avrebbe detto: ‘E perché?’. Io ho pensato che fosse una stupidaggine, sa, lì per lì… Quando ho sentito questa storia, ho pensato: cosa succederebbe se ci fosse uno scrittore così e qualcuno rapinasse la banca, non per i soldi ma per impossessarsi dei manoscritti non pubblicati? Ecco: io non lo so. Penso che se mettessi un mio libro in cassaforte solo qualche deficiente rischierebbe la vita e la libertà per rapinare la banca non dei soldi, ma per portare via il mio manoscritto. Io, se fossi un ladro – e un po’ lo sono -, se rapinassi una banca e dentro ci trovassi un inedito di Salinger e 100.000 dollari, è chiaro che prenderei il bottino e Salinger lo lascerei là dove si trova. Quando si fa un furto bisogna farlo bene, tenersi leggeri durante la fuga: perché mai dovrei portarmi dietro un mucchio di cartaccia?  In ogni modo, tornando a Lisey, ho pensato: e se uno scrittore famoso morisse e ci fosse un pazzo che vuole i manoscritti non pubblicati? In questo libro, quella persona è Dooley. Alla fine, però, questo elemento è diventato meno importante della storia di fondo. La storia di fondo è diventata la storia principale di quello che è successo a Scott da ragazzino e il dialogo interno del loro matrimonio. Insomma: un casino. Quando ho cominciato a sniffare per buttar giù Lisey ho pensato che sarebbe stata una storia ironica e divertente, che avrebbe fatto ridere: non è andata così. Mia moglie mi avrebbe tagliato le palle se avessi osato scrivere qualcosa di divertente: no, perché i libri comici vendono solo se scritti da quelli di Zelig, non da uno come me. Le mogli degli uomini famosi spesso sono totalmente ignoranti, sono tenute completamente in disparte, eppure sono molto molto importanti; e ho pensato di mostrare una donna che salva ripetutamente un uomo, ma nessuno lo sa a parte lei. Il punto è… non lo so qual è il punto. Non ci deve essere per forza di cose sempre un punto. Lasciamo le cose così come stanno, un po’ tanto confuse: tanto non se ne accorge mai nessuno. Le mie storie sono così, piene di tutto e di niente: è questo il motivo per cui tutti ci vedono una cosa diversa dentro. Sono un Maestro, ma mia moglie più di me: lei non solo mi prendi per i fondelli da una vita, ma se ci provo io a farle quello che lei fa a me, me lo spacca il sedere senza pensarci su nemmeno un secondo.

Nel libro parla de “la luce e il buio del matrimonio”…

Due parti. Il buio e la luce. Il mio è tutt’ora un matrimonio che si basa sul lato oscuro di mia moglie, anzi su i suoi due lati oscuri. Non ne ha uno in/di luce. Sono prigioniero di mia moglie. E’ per questo che mi drogo: in qualche modo devo svagare la mente.

Se c’è un tema principale nel libro, è questo?

Sì, esatto. Credo sia proprio così, tanto gliel’ho già spiegato: ognuno ci legge quello che cazzo vuole nei miei romanzi.

I suoi primi libri si sono mai concentrati su un tema così ordinario per gli standard di Stefanone King?

Si sono concentrati tutti su temi piuttosto banali. (ride di gusto, tossisce, diventa viola, quasi soffoca… purtroppo si riprende da solo, senza alcun aiuto da parte mia, e riprende a parlare a ruota libera…) Pet Sematary parla di allevare bambini e di vita in famiglia e, in gran parte, Dolores Claiborne è un libro da leggere quando si è malati. In realtà i miei libri li leggi solo se sei malato di testa e non semplicemente costretto a letto da una banale influenza. Molti libri parlano della vita quotidiana, della grande America. Per via dei temi che tratto, o degli elementi che uso, non i temi ma gli elementi, la gente mi ha applicato questa etichetta qualificandomi scrittore horror. Le sembro uno che fa paura io? Ma oramai i miei editori inglesi l’hanno ampiamente sfruttata ‘sta cosa, con immagini di mani insanguinate che escono dal suolo e tutto il resto: e sì, lo ammetto, tutto ciò è fantastico. Non si sono posti domande, se io fossi d’accordo o meno: per loro era solo interessante vendere. E ce l’hanno fatta, hanno venduto e io ho guadagnato, mia moglie s’è preso tutto, ha fatto dei nostri figli delle persone che sono andate a scuola e ha pagato il mutuo della casa con i miei soldi. Un po’ di soldi me li ha lasciati: potevo scegliere se darli in beneficenza o drogarmi. Ovviamente ho scelto di drogarmi: non sono mica fesso. Sì, in effetti se mi guardate bene in faccia, nelle palle degli occhi, sono un horror vivente, ma chi diavolo se ne frega: Faust è stato scritto in dieci anni, io per un romanzo sei mesi al massimo; e allora che mi dicano horror, purché poi mi riempiano le tasche di monete sonanti.

Quanti dei suoi libri è corretto definire romanzi horror?

Tutti. Nessuno. Qual è la risposta giusta? Insomma, quello che voglio dire: si faccia una domanda e si dia una risposta, che però mi porti soldi nelle tasche. E’ semplice, no?
La storia di Lisey mi è sembrato un libro triste.
E’ un libraccio, come tutti gli altri. Quindi sì, è triste. Come vuole lei. Purché venda bene, sì, è un libro ben più che triste, è tristissimo. Una volta che si arriva alla parola FINE, si ha solo voglia di farla finita con il mondo.

E’ per via dell’incidente?

Quando ho avuto l’incidente, in pratica m’hanno stirato per bene. M’hanno rotto tutto da qui in giù (fa un gesto con la mano che parte dal capo e si ferma alla patta dei pantaloni; King ridacchia al pari d’una scimmia, tossisce, si strozza, diventa rosso, poi blu e viola, strabuzza gl’occhi, cerca di dire qualcosa, ma non gliela fa; e poi, torna ad essere normale…). Ho preso pure la polmonite e nel 2001 sono rimasto in ospedale per ben due mesi. In quella cazzo di stanzetta bianca, tutto fasciato  peggio d’una mummia, ho cominciato a pensare a Lisey, e la storia era tutta lì nella mia testa. Peccato che non potevo masturbarmi: lo faccio sempre quando ho in testa una storia nuova, per me è come rompere la bottiglia sullo scafo d’una barca vergine che attraverserà a breve i Sette Mari. Ho avuto come una visione. Oh, era proprio una visione. L’importante è che la storia mi sia venuta, anche se, be’, niente sega. C’era soprattutto la voglia di sborrare, volevo dire di scrivere qualcosa che trasmettesse lo strazio del modo in cui sentiamo, della nostra fondamentale solitudine e di come sia possibile amare ma, prima o poi, l’amore finisca. Le piace il concetto? A dirlo sembra persino che stia dicendo una cosa intelligente, platonica, neh: porca la miseria, meglio di Aristotele e Mickey Mouse sono. Clive Barker si starà mangiando le unghie dalla rabbia: lo sa che per Hellraiser, Clive si è ispirato alla mia persona in carne e ossa? Non lo sapeva, vero! Povero Clive: senza di me è cieco. Sono io la sua Musa. Mentre scrivevo avevo sul piatto Hank Williams: mi serviva, per dare corpo alla storia. Ad un certo punto sono scoppiato a piangere: ero Mr. Cascate del Niagara. Mi doveva vedere, si sarebbe innamorato dell’innocenza dentro ai miei occhi perché io lo so che c’era. Non faccia quella faccia disgustata… e che diamine!  Siamo mortali. E’ il meglio che posso fare. Forse sarà per spaventarvi a morte, ma potrebbe anche essere per prendervi in modo più subdolo, per farvi sentire tristi, come quando vi congelano le emorroidi e non potete cagare ma solo mangiare minestrine tiepide, cioè fredde come il sangue d’un morto. Riuscire a farvi sentire impotenti è positivo. Riuscire a farvi ghignare al pari di scimmie con la scimmia addosso è positivo. Farvi urlare, ridere, piangere, non m’importa, ma coinvolgervi, farvi fare qualcosa di più che mettere il libro nello scaffale dicendo: ‘Ne ho finito un altro’, senza nessuna reazione. Questa è una cosa che odio: perché il serio rischio è che non compriate più i miei vaneggiamenti. Voglio che sappiate che io c’ero.

Ne La Storia di Lisey c’è qualcosa che coincide con la biografia che compare sul suo sito web. Nel 1977 lei venne in Gran Bretagna per restarci un anno ma se ne andò molto prima.

Cercavo ispirazione. Pensavo che l’avrei trovata. Mi sbagliavo: l’Inghilterra non è popolata di fantasmi nonostante i tanti scheletri nell’armadio… Desistetti ben presto. Gli inglesi non fanno sesso, quindi niente fantasmi. L’Inghilterra non mi ha dato niente in termini ispirativi. Soltanto soldi a palate. Dio salvi la Regina.

Cosa pensa degli Italiani?

Boccaloni. Voi avete inventato la Mafia e la Camorra, ve lo riconosco. Poi avete inventato pure quel mezzo sceriffo – come si chiama? – ah, Roberto Saviano: ve lo concedo, siete stati meglio di Walt Disney. Però noi Americani – grande sempre l’America, che Dio sia lodato – abbiamo inventato Bin Laden e non contenti abbiamo impiccato Saddam Hussein, e in Iraq continuiamo a mandarci i nostri ragazzi: insomma, voi avrete pure chi vi fa il culo in casa, ma noi siamo più stronzi. Voglio che questo si sappia. La mia storia di Lisey è poi questo che dice: basta leggerla nel modo corretto. Voi poi non ce l’avete un Sergente che ha posato per Playboy: Michelle Manhart, tutta nuda, come mamma l’ha fatta. Una bomba vi dico! Leggete Playboy: l’America è grande, grande, grande e dura e soda.

Legge gli scrittori italiani?

Evito. Ho problemi al fegato. Una volta mi hanno dato un mattone, scritto da Wu Ming, credo che il titolo fosse 54: l’ho usato per accendere il camino. Una meraviglia. Non potevo crederci. Ma leggere gli italiani, no, non se ne parla.

Lei pensa d’essere ormai un Classico?

Le biblioteche stanno buttando fuori, a calci, Hemingway e Faulkner per farmi posto: certo che sì, sono un Classico.

I giovani impareranno qualcosa dai suoi libri…?

Non credo proprio: non ho alcuna brama pedagogica. I miei romanzi sono pieni di tutto e di niente. Si possono leggere tranquillamente in aereo, durante un dirottamento. No, niente: non ci sono insegnamenti nei miei scritti, non una traccia, nemmeno un pallido fantasma anemico. Niente di niente. Io non ho da dire un bel niente ai miei lettori: è per questo che mi comprano e mi leggono. Gli riempio la testa di quel Niente per cui noi Americani siamo diventati famosi. Ieri era Hemingway, oggi sono io.

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