Rileggere ha questo di buono: che puoi concentrarti sui segreti di un autore, sfuggendo alle sue doti ipnotiche. È così che credo di aver capito che cosa fa di Bolaño un grande. O perlomeno che cosa dimostra che sia un grande. Ed è questo: Bolaño temporeggia, dilaziona, infila storie dentro altre storie prolungando l’attesa, anzi frustrandola, ma convincendoti a seguirlo docilmente, o meglio con decisione. Insomma, una cosa che nelle mani di chiunque altro ti irriterebbe, ti spingerebbe a chiudere il libro e a gettarlo via con rabbia, si trasforma invece in una qualità. Bolaño ti imbriglia, e non lo fa usando scontati trucchetti d’intreccio, magari sospendendo ad arte la trama – anche se il piacere delle sorprese che ti regala è uno di quelli per cui non puoi più fare a meno di leggerlo – ma costruendo una tensione continua, tutta basata sui personaggi, sulle loro ambiguità, tutta generata da pochi, minuscoli, precisi particolari. Bolaño, quando non dice, sa essere terribile. Prendi Carlos Wieder, il protagonista di questo libro. Lo conosciamo seguendone diverse incarnazioni, ma sempre conservando qualche dubbio sulla fonte delle notizie, eppure questo non gli impedisce di uscirne come un personaggio di una potenza inaudita, inquietante come pochi altri mai. Anzi – e qui sta tutta l’arte di Bolaño – lo diventa proprio per questo. Wieder è un poeta-aviatore, che traccia i suoi versi in cielo spargendo fumo dalla coda del suo aereo, ma è anche un sadico e un assassino. Sono due cose strettamente correlate, e da ciascuna – incredibilmente – dipende la grandezza dell’altra. Ma Wieder è solo uno dei tanti personaggi che popolano il libro, artisti e poeti che incarnano con le loro ossessioni e le loro vite sbandate l’assurda follia di un’epoca in cui in Sudamerica la violenza era pane quotidiano e qualsiasi eccesso che oggi sembrerebbe surreale un’esperienza quotidiana. Un’epoca di cui Bolaño è il più potente, disperato, contraddittorio cantore.
Stella distante, Roberto Bolaño (Sellerio; 170 pp; 7,75 €)
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