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Step Up 3D

Creato il 01 ottobre 2010 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

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“Molti imparano a ballare… altri sono nati per farlo!”

Luke

Ruota tutto intorno a questa battuta pronunciata da uno dei protagonisti di Step Up 3D, secondo sequel di una delle serie ‘danceresche’ più apprezzate degli ultimi anni dai teenagers statunitensi (e non solo), e diventata in breve tempo un vero e proprio brand sul quale marche prestiogiose come Nike o Sony hanno deciso di puntare per farsi spudoratamente pubblicità sul grande schermo, l’intero plot di questa commedia musicale diretta dal talentuoso John M. Chu.

Il regista statunitense torna dietro la macchina da presa, che per l’occasione sfrutta solo in minima parte le strabilianti potenzialità della visione stereoscopica, per dirigire un nuovo capitolo dedicato alle gesta ballerine di un gruppo di street dancer. Chu era già al timone del secondo episodio realizzato nel 2008 che, nonostante gli abissali limiti di scrittura, gli aveva permesso di mettere in vetrina le sue indubbie qualità tecnico-stilistiche. Ad un biennio di distanza la situazione non cambia, al contrario, peggiora decisamente tanto dal punto di vista narrativo quanto da quello dell’impianto dialogico. Rispetto ai capitoli precedenti, infatti, la sceneggiatura perde sin dall’inizio la bussola senza ritrovarla mai. Brandelli di storia emergono di tanto in tanto tra una coreografia e l’altra, elemento che rappresenta senza ombra di dubbio una delle poche note positive di un’operazione che sopravvive solo grazie a virtuosismi registici e colpi di coda visivi. Il tasso spettacolare aumenta a dismisura fagocitando storia e soprattutto personaggi.

Gli sceneggiatori sembrano aver dimenticato nel cassetto la componente drammaturgica, consegnando nelle mani di Chu uno script ridotto ai minimi termini, nel quale l’azione diventa il motore portante e le parole, lo sviluppo dei personaggi e della vicenda, sopramobili da spolverare quando capita. Uno squilibrio che a conti fatti peserà in maniera determinante sul bilancio finale di un film che a tratti coinvolge, grazie a sequenze dal forte impatto visivo (le due sessioni di qualificazione e il pre-epilogo alla Jam World), ma che nel complesso lascia quasi indifferenti. L’azione si sposta dalle aule e dai corridoi della Maryland School of the Arts ai locali e alle strade della capitale della danza dell’hip hop a stelle e strisce, ossia New York.

Alla varie tecniche e stili di ballo vengono aggiunte discipline come capoeiira e parkour. La storia si fa corale, ma tutto questo non serve a rinnovare una serie che, nonostante i cambiamenti, perde gradualmente pezzi e ,invece di cercare nuove strade, finisce con il percorrerne altre già battute da pellicole appartenenti allo stesso filone. La mente torna così automaticamente al prototipo Fame (1980) e a cloni più o meno riusciti come Ballare per un sogno (2008) di Darren Grant, A Time for Dancing (2002) di Peter Gilbert e naturalmente Save the Last Dance (2001) di Thomas Carter.

Francesco Del Grosso


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