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Stereotipi e pregiudizi? No, io no!

Creato il 09 aprile 2013 da Tabulerase

stereotipi e pregiudiziUn padre e suo figlio furono coinvolti in un incidente stradale in cui il padre morì e il ragazzo rimase gravemente ferito. Il padre fu dichiarato morto già sul luogo dell’incidente e il suo corpo fu trasportato all’obitorio locale. Il figlio fu portato in ambulanza nell’ospedale più vicino e fu immediatamente trasferito nella sala operatoria del pronto soccorso. Venne chiamato il chirurgo di guardia che, appena arrivato e visto il paziente, esclamò: “Oh mio Dio, è mio figlio!”.

Quale spiegazione vi dareste?

In una ricerca, il 40% degli studenti ai quali è stata posta questa domanda non hanno saputo rispondere, altri hanno generato un’ampia gamma di spiegazioni complicate come, ad esempio, che il padre deceduto fosse un prete cattolico, per cui il termine “figlio” era stato usato in senso lato”. Quella che non si riesce a dare in modo immediato è la risposta più ovvia, cioè che il chirurgo era la madre.

Perché spesso sì ha tanta difficoltà a rispondere e si ricorre a razionalizzazioni complesse? Essenzialmente perché è difficile sopraffare lo stereotipo che si attiva automaticamente ossi a che i chirurghi sono tutti uomini. Proprio così: gli stereotipi sono schemi automatici, impossibile controllarli ma soprattutto impossibile non averne. Essi dipendono principalmente dai processi mentali di categorizzazione propri dell’essere umano. L’ambiente che ci circonda è troppo ricco per essere compreso in tutti i suoi dettagli, talmente ricco che può disorientare e destabilizzare. Non esiste un uomo uguale all’altro, un animale uguale all’altro, una mela uguale all’altra: tutto ciò che incontriamo è un esemplare unico. Per riuscire a sopravvivere è necessario semplificare la realtà: il modo più facile che la nostra mente conosce è quello di racchiuderla in tante categorie applicando ad ogni categoria un’etichetta concettuale.

In questo modo la realtà è più ordinata, più prevedibile e controllabile: ogni novità e diversità viene collocata nel giusto cassettino con l’etichetta corrispondente, a volte con qualche forzatura o accomodamento, spesso annullando o alterando (inconsapevolmente) alcune caratteristiche dell’elemento non ben identificato, ma difficilmente e con molta fatica modificando la categoria consolidata. Come dire: si tratta di ricondurre il nuovo al vecchio, cerchiamo di modellare e smussare la diversità affinché possa entrare bene nel nostro cassetto concettuale. Come si può ben capire, il passaggio alla generalizzazione è scontato e così agli occhi di uno straniero gli Italiani cantano, mangiano pasta, pizza e bevono caffè, vivono d’arte, sono cattolici, sono scanzonati, fanno i conti con la mafia, giocano a calcio e sono poveri. Oppure, nel nostro immaginario collettivo, i Francesi sono nazionalisti, supponenti e presuntuosi, amano la buona cucina e non vanno troppo d’accordo con gli Inglesi oppure gli uomini di colore sono dotati atleticamente e hanno un innato senso del ritmo. Ma basti pensare al Natale con la neve e il caminetto acceso , alla musica rock associata al consumo di droghe o semplicemente ad un chirurgo uomo. Un meccanismo tanto naturale quanto insidioso perché, a partire da uno stereotipo, è molto facile formulare giudizi senza tenere minimamente in considerazione le caratteristiche delle persone coinvolte: sfociamo inevitabilmente nel pregiudizio che, nella sua veste peggiore, si traduce anche in comportamenti negativi nei confronti di intere categorie sociali generando la discriminazione comportamentale.

Il concetto di pregiudizio nel corso del tempo è cambiato passando da giudizio precedente (pre-giudizio) a giudizio prematuro per arrivare alla connotazione attuale di giudizio immotivato, ma bisogna precisare che il pregiudizio può essere anche positivo. Ad esempio, dopo la situazione drammatica creatasi in Tibet con l’invasione cinese, molte persone in Occidente hanno sviluppato un atteggiamento positivo nei confronti del popolo tibetano considerato mite e vittima di persecuzioni ed ingiustizie.

Da quanto detto emerge un’allarmante considerazione: se l’attivazione dello stereotipo è automatica, se quando incontriamo uno skinhead si attiva subito il relativo schema che lo etichetterà come anarchico e violento e si arriverà alla conclusione scorretta che probabilmente egli si comporterà in modo aggressivo, se tutto questo è incontrollato ed incontrollabile, perché abbiamo bisogno di tradurre quello che vediamo in un formato pronto per essere conservato in memoria, siamo destinati a convivere con stereotipi e pregiudizi di ogni tipo?
Le scienze umane e sociali forniscono risposte non troppo confortanti: le persone potrebbero esercitare un certo controllo sull’attivazione degli stereotipi e conseguentemente sullo sviluppo di pregiudizi ammesso che siano consapevoli di possedere degli stereotipi, che abbiano sufficienti risorse cognitive per esercitare questo controllo e che siano sufficientemente motivate a rispondere in modo non stereotipico.

Più facile trovare un ago in un pagliaio: se chiedessimo a cento persone di confidarci in tutta onestà se pensano di ragionare per schemi, di applicare etichette, di avere ragionamenti stereotipici o pregiudizi di sorta, probabilmente tutti e cento risponderebbero di essere estranei a qualsiasi luogo comune, di avere una visione egalitaria del mondo, di essere aperti alla diversità, di essere originali, creativi e al di fuori di qualsiasi schema… e naturalmente buona parte di essi avrebbe difficoltà a cogliere che, in quella sala operatoria, il chirurgo era semplicemente la madre del ragazzo ferito.


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