Non esistono due parole più pericolose di "buon lavoro".
Lo diceva J.K. Simmons in "Whiplash", nell'istante in cui, il suo personaggio, giustificava di fronte al suo alunno migliore il motivo del carattere severo e aggressivo con cui abitualmente spronava o annullava talenti e persone. Quel carattere, secondo lui, era l'unica soluzione possibile per motivare un aspirante batterista a diventare il numero uno, a diventare il migliore, un genio assoluto.
Steve Jobs sicuramente sarebbe stato d'accordo con lui, o perlomeno lo sarebbe stata quella versione, mitizzata, che in molti sostengono appartenere a quella reale. Si è ispirato ad essa lo sceneggiatore Aaron Sorkin, precisamente all'assemblamento descritto nel libro di Walter Isaacson che con Jobs in persona ebbe l'onore di trascorrere un po' di tempo, esattamente poco prima del suo decesso. Secondo gli scritti di Isaacson il papà della Apple oltre ad essere l'uomo visionario e ambizioso che tutti abbiamo imparato a conoscere era anche un uomo solo e tormentato, un figlio adottato che tuttavia non riusciva a darsi pace sui motivi che avevano spinto i suoi genitori biologici a privarsi di lui. Un interrogativo che condizionò Jobs in tutto e per tutto, dagli affetti, che tendeva ad allontanare e a distruggere, al lavoro, con il quale cercava ossessivamente di realizzare un prodotto perfetto, privo di falle, che fosse in grado di farsi amare dal mondo (al posto suo) e di cambiarlo contemporaneamente, ma che al tempo stesso fosse anche chiuso all'utente e impossibile da manomettere: in poche parole una sua proiezione tecnologica, curata di quegli errori che lui stesso sosteneva di avere.Non era un ingegnere, non era un designer - come gli dice in una scena clou lo Steve Wozniak di Seth Rogen - non sapeva neppure come attaccare un chiodo alla parete, eppure era il migliore in assoluto a svolgere un compito apparentemente inutile nel suo mestiere: dirigere l'orchestra. Jobs era il miglior direttore d'orchestra della scena tecnologica ed informatica, era colui che con la minaccia, la mancanza di rispetto e le torture psicologiche riusciva ad avere in cambio dai suoi dipendenti non amore, ma il raggiungimento di quella perfezione incredibile che per la maggior parte dei suoi colleghi non era neppure idealizzabile o concepibile (e qui ritorna il J.K. Simmons di prima).
Intorno a questo ritratto Sorkin, sviluppa una sceneggiatura prettamente d'impianto teatrale, statica e fitta di dialoghi, a cui il regista Danny Boyle deve dare vita e animazione, non scollandosi dal backstage scenografico dove l'azione passa, esplode e si esaurisce allo stesso modo per ben tre volte. E' tutto concentrato durante i minuti che precedono la presentazione pubblica di tre prodotti fondamentali, precisamente il Macintosh nel 1984, il NeXT nel 1988 e il primo iMac nel 1998, prodotti che rappresentano per la vita (e la carriera) di Jobs, sinteticamente, ribalta, vendetta e trionfo. In questi spaccati Sorkin decide di farlo scontrare/avvicinare regolarmente e a turno con i suoi maggiori collaboratori, capi e assistenti, quindi Joanna Hoffman, Andy Hertzfeld, Steve Wozniak e John Sculley, a cui va ad aggiungersi anche Chrisann Brennan, donna dalla quale Jobs ha avuto la figlia Lisa, dalla quale prende le distanze, rinnegando la paternità.
Dai comportamenti, le discussioni, gli atteggiamenti arroganti con cui tiene testa, comanda o annienta le persone allora la sua figura pian piano si staglia e si fa gradualmente più nitida, così come la maturazione e l'ammorbidimento che a distanza di anni, con la tranquillità del successo agguantato, fisiologicamente trova spazio iniziando quella procedura di riparazione umana e affettiva, anni prima insperata.
Ne vien fuori un biopic fuori dagli schemi, in linea speculare con la personalità che incarna e racconta, un'opera mai così diversa da quelle che abitualmente siamo abituati a vedere quando al centro c'è la vita di un personaggio celebre, storicamente rilevante. Steve Jobs con il suo lavoro e con il suo carattere (mitizzato o meno) ha cambiato per sempre il nostro modo di relazionarci al mondo e di vivere, così come ha fatto Mark Zuckerberg, altro personaggio non a caso raccontato da Sorkin attraverso la regia di David Fincher.
Due opere, "The Social Network" e "Steve Jobs", che tra loro sono assai vicine e quasi legate, probabilmente per via dell'ammirazione e dei punti in comune che il suo autore sente di avere con le entità che racconta, entrambe piene di personalità e di ambizioni. Ambizioni che questo "Steve Jobs" raggiunge a testa alta per scrittura e per via di un Michael Fassbender camaleontico e magistrale, ma che, va detto, da l'impressione altresì di essere un lavoro da cui si poteva andare a spremere addirittura qualcosina in più.
Lato regia, ovviamente.
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