di Claudia Boddi
Il problema dello stigma e dell’identità sociale è stato oggetto di molta letteratura: le ricerche in merito hanno rilevato aspetti cruciali legati al comportamento umano, ottime cartine di tornasole non solo rispetto ai riscontri empirici ma anche, e soprattutto, per quel che concerne il vivere quotidiano.
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Soffermiamoci, per esempio, sullo stigma che colpisce persone con problemi psichiatrici: attraverso quali processi interiorizzano l’immagine che il mondo rimanda di loro di stessi? Ci sono similitudini in storie diverse? In generale, è vero che persone con un particolare stigma tendono verso esperienze conoscitive simili per quel che riguarda la loro minorazione. In loro, si registrano analoghi cambiamenti nella concezione di sé e similitudini nello sviluppo delle varie fasi del processo di adattamento. Ma la storia naturale di una categoria di stigmatizzati deve essere nettamente distinta da quella dello stigma in sé.
Una fase di questo processo di socializzazione è quella mediante la quale il soggetto impara a interiorizzare il punto di vista altrui, acquisendo le credenze che la società ha sulla sua identità. Altro momento cruciale è quello mediante il quale la persona apprende di essere riconoscibile da un particolare marchio e dalle sue conseguenze. L’influenzarsi reciproco di queste due fasi costituisce uno schema significativo, dal momento che getta le fondamenta per lo sviluppo successivo e offre uno strumento per individuare percorsi di vita accessibili per le persone che subiscono distinzioni di vario tipo.
Numerosi studi si sono concentrati su questa parte del problema, riuscendo a classificare anche gli stadi di progressione dell’apprendimento della stigmatizzazione, da parte di colui il quale la sperimenta, e ad individuare tipologie di esiti possibili. Ma al di là del modello cui una persona afferisce, ciò che colpisce è il momento in cui una persona riesce a realizzare di essere stigmatizzata. In quel frangente, getta uno sguardo nuovo al rapporto con gli altri. In alcuni casi, l’unico contatto che ha con coloro che si trovano nella stessa situazione sarà saltuario ma comunque sufficiente a rivelarle che esistono anche altri come lei. Per coloro i quali hanno subìto una minorazione da breve tempo, è probabile che i loro compagni di sofferenza, più abituati ad affrontare tale situazione, cerchino di istruirla sul modo di comportarsi sia dal punto di vista fisico che da quello psichico. Va da sé che si tratta di meccanismi insiti nelle relazioni tra gruppi e tra persone in generale: non c’è un elenco fisso di azioni che si dipanano in questo senso; le relazioni, come sempre, sono tutte in divenire e quello che succede è sempre originale, mai uguale a quello che è successo prima.
Nei molti casi in cui la stigmatizzazione dell’individuo è associata all’ammissione in un contesto quale la prigione, un orfanatrofio o un sanatorio, gran parte di quanto l’individuo apprenderà riguardo al proprio stigma gli verrà trasmesso nel corso di un prolungato e intimo contatto con quelli che stanno per diventare i suoi compagni di sofferenza. È probabile così che questi rapporti finiscano per creare vera e propria fratellanza ma, talvolta, l’identificazione può generare risposte, se non altro, ambivalenti. Ci saranno quindi “cicli di affiliazione”, ossia oscillazioni nell’appoggio tra compagni, data l’ambivalenza strutturata nell’attaccamento dell’individuo alla sua categoria, nell’identificazione con loro e nella partecipazione alla loro vita. Questo particolare processo si riconosce spesso nell’adolescenza, rispetto al gruppo dei pari.
FONTI: Goffman, 1963
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