Qual è il colmo per una linguista?
Perdere le parole.
[Risate registrate del pubblico]
Meglio iniziare rompendo il ghiaccio con una freddura, di quelle poco riuscite, perchè di divertente e leggero in Still Alice ci sarà gran poco.
E non è un male, badate bene, anzi, perchè proprio per la pesantezza che ha, il film riesce ad essere solido, senza mai scivolare su facili e quasi scontati -visto il soggetto- pietismi.
La protagonista è per l'appunto Alice, splendida cinquantenne, linguista e professoressa rinomata alla Columbia University, madre fiera di tre figli che han già intrapreso la loro strada, moglie devota di un altrettanto rinomato dottore.
Tutto sembra perfetto nella sua vita, lei sembra perfetta, se non fosse che, così, dal nulla, alcune parole iniziano a sfuggirle dalla mente, il suo cervello sembra subire piccoli blackout che la preoccupano, e visto che scema non è, Alice corre da un neurologo, convinta di avere un tumore.
I risultati dei test saranno ben peggiori, se possibile: Alice ha l'Alzheimer, caso raro di sviluppo giovanile, eredità di un padre che con l'alcool lo nascondeva.
Diagnosi: pochi mesi di lucidità, ancora, la malattia, anche per come il suo cervello è ben allenato, avanzerà velocemente.
In un mondo cinematografico in cui sempre più la grande C del cancro sembra farla da padrone, c'è spazio per un film che non solo racconta il dramma di una persona, ma questo dramma ce lo vuole far vivere e soprattutto comprendere.
La paura, lo spaesamento, la degenerazione di tutto quello che si è, ci vengono mostrate quasi senza filtri, cercando di mettere luce, di approfondire una malattia tanto devastante com'è l'Alzheimer.
Per questo il film è tutto sulle spalle di Julianne Moore, che con un'intensità unica porta la sua Alice dagli abiti eleganti e dalla raffinatezza dei modi, a una donna quasi irriconoscibile, persa in un mondo altro dove nemmeno lei si riconosce, dove anche noi ci perdiamo, con il tempo che scorre veloce e ci annienta nella sua inesorabilità.
C'è spazio però per il dramma parallelo che i famigliari devono vivere, il loro precario equilibrio in cui per una volta la tecnologia viene in aiuto, con un marito all'apparenza egoista, ma in realtà incapace e debole contro la malattia, i figli che hanno la stessa sorte su di loro. Spicca così Lydia (una più che convincente -capelli unti a parte- Kristen Stewart), la più ribelle, la più giovane, che la sua strada non l'ha ancora trovata, che il suo destino non lo vuole conoscere, ma si sforza di capire quello della madre, di interrogarla.
Still Alice che le parole interroga, sulle parole è costruito, quelle perse e quelle che assumono un nuovo significato, che si cristallizzano in tre momenti oratori: la prima defaillance, il toccante discorso che vuole spiegare, vuole mettere un punto -solido- di non ritorno a quanto dovrà ancora succedere, e l'estratto finale da Angels in America, banalmente, ma non scontatamene, sull'amore.
Richard Glatzer e Wash Westmoreland dosano con sapienza sia la bravura della Moore che il loro soggetto, riuscendo a stare in equilibrio tra quello che facilmente è un film da Oscar (e da Golden Globe, già vinto ovviamente dalla Moore), e quella che è una storia toccante, narrata per coinvolgerci, per educarci, anche.
Alice non può lasciare indifferenti, non può lasciare gli occhi asciutti, e quasi contraddittoriamente, finiamo per tifare la sua fine.
Ultimo atto di gentilezza verso se stessa, ultimo atto di pragmatico amore.
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