Inutile sottolineare, dunque, lo sconforto e l'angoscia trasmesse sin dalle prime battute da una Julianne Moore come sempre impeccabile, fagocitata quasi immediatamente dal vortice spietato e rapidissimo di una malattia arrivata in età precoce, in una delle sue forme più rare e geneticamente trasmissibile o meno ai suoi figli (già grandi) con il cinquanta per cento delle possibilità. Perché l'impegno di cui si fa carico"Still Alice", che piaccia o meno, sembra voler essere proprio questo. Infatti dopo una prima fase in cui vengono messi in risalto i sintomi, e una seconda poco più lunga di visite e test, il gran blocco successivo si concentra senza distrazioni guardando al peggioramento mentale della protagonista, in costante perdita di ricordi e memoria, diventando lentamente peso e preoccupazione sia diretta che indiretta di tutta la sua famiglia. Glatzer e Westmoreland quindi percorrono in maniera fedele e costante la loro inclinazione, e non ritagliano alcuno spazio per tratteggiare un'immagine più o meno nitida, volta a spiegare chi fosse Alice prima della sua disgrazia (a parte un insegnante, moglie e madre brava e rispettata). A loro infatti interessa puramente il combattimento, la tenacia e l'ostinazione con cui la paziente di riferimento pone resistenza alla sua malattia, pur avendo piena coscienza di poter fare ben poco a suo vantaggio.
Ma le conseguenze cinematografiche non sono un cruccio importante per Glatzer e Westmoreland, che puntano all'umanità dello spettatore e alla sua sensibilizzazione nei confronti di una malattia che - come dice anche Alice stessa - si spera possa venire curata e salvare le generazioni future, privandole del dolore.
E per quanto il loro tentativo possa sembrare in certi attimi poco leale e ricattatorio, alla fine "Still Alice" al contrario di ciò che racconta, non si dimentica affatto, anzi, resta saldo alla testa, martellando il cervello.
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