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Still life – Uberto Pasolini [2013]

Creato il 18 giugno 2015 da Amalia Temperini @kealia81

Da un po’ di mesi non vedo film. Ho scelto di non dedicarmi troppo al cinema e buttarmi sul lavoro pensando esclusivamente a ciò che posso fare per il mio futuro. Il necessario, fatto di scelte pronte a farmi stare in pace e con la coscienza a posto. Il resto conta poco e la gente è di passaggio. Persone che si incontrano offrendosi nutrimento sempre in diminuzione; ostentazione e nichilismo in crescita. Continuo a camminare osservando le due parti; rimango indifferente all’amore e all’odio; cerco di prendere il necessario dell’uno e dell’altra e immaginare nuovi mondi possibili, perché si ha il dovere di pensare a soluzioni positive.

Still Life è un film triste. Molto triste. In tutta la mia vita penso di aver pianto litri di lacrime solo per Umberto D di Vittorio De Sica, scritto da Cesare Zavattini.

Mi sbagliavo: ho riaffermato a me stessa che non bisogna mai prendere sotto gamba le cose, ma fermarsi tre o quattro secondi a riflettere, prima. Decidere se fare un passo giusto o rimanere immobili, nelle condizioni di non vivere il presente. E’ questo il tema portante della pellicola ed è l’argomento che guida all’evoluzione tragica del personaggio protagonista.

La trama è incentrata su un uomo di quarant’anni o poco più che attraversa la vita – la propria esistenza – a ricostruire il vissuto di altri individui morti in solitudine. Una raccolta certosina di situazioni mai attraversate personalmente, composte in fotografie e memoria altrui, racchiuse in un album che ne conserva gli scatti fotografici come un piccolo diario segreto tenuto da un ragazzino.

Gli argomenti sono espliciti e non serve girarci troppo attorno:

  1. Il paradosso tra vita e morte come sottile equilibrio e ribaltamento fatto di animi,
  2. la memoria individuale,
  3. il tradimento e l’immobilità di se stessi,
  4. il cinismo.

Il film di Uberto Pasolini è uscito nel 2013 e ha vinto la sezione Orizzonti della 70° Mostra internazionale d’arte cinematografica Cinema di Venezia. Il progetto registico è tutto in crescendo; nelle sue fasi iniziali scruta lo spettatore e lo guarda in maniera introspettiva, lo pone in una condizione di impassibilità. La visione è per questo una sofferenza senza precedenti. Il tempo di fruizione si dilata e il ritmo è frenato dal soffocamento ripetitivo delle situazioni. E’ difficile calarsi nei panni del personaggio John May: fisso, statico, ciciclo, non sembra avere altre mete se non quelle di tutti i giorni, nel compiere le stesse azioni, alla stessa ora.

Il cambio avviene quando gli è comunicato il suo ultimo caso. L’armonia di un efficientismo di un essere che si svuota e che dall’utile si colloca nella condizione di inutile. Vano è il tentativo di prendere considerazioni per rimanere seduto a lavorare. E’ indispensabile superare l’ultimo caso per adattarsi alle attuali esigenze/ condizioni di un responsabile che ha mutato le sorti dell’attore protagonista. L’evoluzione positiva c’è, e si rafforza in un finale del tutto sorprendente ed emozionante, fatto di un attimo, capace di fare la differenza e stravolgere l’esperienza di chi guarda da casa.

In epoca in cui si è sottoposti alla massificazione incentrata su una comunicazione istantanea, dove i mezzi sono volubili e cambiano in un batter d’occhio, e i risultati sono altrettanto volatili, l’uso del mezzo fotografico come strumento di custodia/conservazione permette di capire quanto un piccolo dettaglio estraneo – inutile –  insensato -, nelle nostre mani, possa fare la differenza in tutto, avere un potere universale di sensibilità e rispetto, cura, pensando agli altri.

E’ un film che consiglio di vedere dal profondo dell’intimo.
Fotografia top.

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