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Nelle prime pagine di Stoner (1965), il protagonista sembra come inebetito, inadatto al mondo che andrà ad affrontare. La sua estraneità è radicale e assoluta, il suo mondo è la terra, la campagna, e la sua prima scelta universitaria corrisponde all'unico modo possibile per concepire la prosecuzione degli studi, ovvero Agraria. Poi qualcosa succede e, durante un seminario di letteratura inglese, William Stoner cambia indirizzo, cambia vita e si lascia genitori e i campi alle spalle, per fare del campus la sua esistenza. Non abbandona mai il suo posto, nonostante le due guerre mondiali; non cessa mai di essere sposato alla stessa donna, Edith, nonostante sconosca la passione al suo fianco. Il futuro è qualcosa verso cui l'uomo si avvia, con l'insicurezza di chi non vede bene, pur avvertendone l'esistenza - più di quella del passato - ineluttabile e concreta.
E concreta fino a far male è la scrittura folgorante di John Edward Williams, l'autore texano che ha dato corpo a questa biografia immaginaria di un professore di Columbia. Più che asciutta, la sua narrazione è materica, si ha la sensazione di passare le mani lungo questa vita: l'autore ha la voce secca di chi dice solo le cose indispensabili, ma affonda il coltello ed è implacabile, come dice e ripete Peter Cameron nella postfazione (da leggere solo a conclusione del libro). Stoner non è un personaggio tormentato e non è un inetto, almeno nella definizione che siamo soliti attribuire al termine. Ha i suoi momenti di gioia e ha carattere, in punto di morte sente insieme il rantolo del suo respiro e la dolcezza dell'estate che gli si raccoglieva nei polmoni; però sul piano sentimentale è cauto fino alla zoppia di una bestia fuori dal suo branco, tra le mani dei nemici. Pur inserito nel suo ambiente, quello universitario, William Stoner sa sempre di un altro mondo, si isola fino a una forma di autismo in quello che è diventato, né nutre speranza o desiderio di superare quei confini.
La narrazione sembra seguire le tracce di un film muto o di quelle rapide sequenze di raccordo tra una scena dialogata e un'altra, magari accompagnate dal gelido e coltissimo esercizio intellettuale della variazione. Folle di pensieri e di eventi si susseguono senza che si possa intervenire a fermare la valanga, lasciando il lettore - questo sì - impotente di fronte a una così incisiva e feroce maestria. Tutto accade mentre si aspetta l'evento, le svolte arrivano come di soppiatto e fanno male. Con la stessa sorniona ineluttabilità, precipitano giù dal libro pagine e pagine che sono dei veri capolavori: penso in particolare, nel secondo capitolo, all'incontro di Stoner con i suoi amici al campus, Finch e Masters e a quest'ultimo che scolpisce i ritratti degli amici con una fatale genialità plastica; o all'intero tredicesimo capitolo (che già da solo vale tutto il libro), nel quale si parla d'amore come di un fuoco che si esaurisce e consuma accartocciandosi sulla consapevolezza.
Stoner di John Williams, riedito nel 2012 da Fazi (con la traduzione di Stefano Tummolini), è un dono immenso della letteratura americana (nei confronti della quale io non mi riconosco particolare affinità). L'intero romanzo (322 pagine) è una lucidissima parodia di una vita da stordito: coesistono le due sensazioni, quella di chi non padroneggia il mondo tutto intorno (un mondo - per di più - a ben corto raggio) e quella di chi si avvede della propria condizione e vi si rassegna.
Non riusciva a pensarsi come un vecchio. Certe volte, la mattina, quando si faceva la barba, guardava la sua immagine riflessa nello specchio e non si riconosceva affatto in quel viso che ricambiava stupito il suo sguardo, in quegli occhi chiari che spuntavano da una maschera grottesca. Era come se, per qualche oscura ragione, indossasse un assurdo travestimento e aveva l'impressione che, se avesse voluto, avrebbe potuto strapparsi dal viso quelle sopracciglia bianche e foltissime, quella massa di capelli canuti, quella carne che pendeva dalle ossa affilate e le profonde rughe che lo facevano sembrare più vecchio
È all'insegna di questo doppio registro che si possono valutare i temi affrontati dal gioiello di John Edward Williams: la politica e la guerra, l'amore e la disillusione, la paternità e la famiglia, il circo accademico e un intero sistema di valori. C'è davvero un mondo nel quale sprofonda Stoner, ma con l'incauto distacco di un chirurgo ebbro che sa dove tagliare e taglia troppo in fondo con la sua terrificante esattezza lessicale. Da leggere, rileggere e non comprendere tutto in una volta.
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