La storia non è il solo susseguirsi di fatti, come gli anelli di una catena, ma conoscenza. La canzone di Francesco De Gregori dice «la storia siamo noi». Volendo dire che la storia non è fatta da entità misteriose ma dagli uomini, grandi e piccoli, importanti e ignoti, con le loro scelte. Ma «la storia siamo noi» non solo perché la facciamo, ma anche perché noi stessi siamo già storia. La classica definizione aristotelica dell’uomo come “animale razionale” può essere ritradotta così: l’uomo è un animale storico. La storia è così allo stesso tempo tanto il fatto, quanto la conoscenza del fatto. Ognuno di noi, pur non sapendo nulla di storia, può raccontare quanto meno la propria storia, bella o brutta che sia, significativa o insignificante (ma è difficile trovare una storia insignificante dal momento che la storia è proprio ciò che “significa”). Proprio perché raccontiamo la nostra storia, la storia è conoscenza. Io ho quarantaquattro anni – il lettore avrà i suoi anni – e sono proprio questi quarantaquattro anni che mi consentono di guardare il mondo e di conoscerlo in base al linguaggio, alla memoria, all’esperienza, al giudizio che dei quarantaquattro anni costituiscono cuore, mente e spina dorsale. Gli animali storici, a differenza degli animali naturali, hanno bisogno per vivere nella storia non solo di pane e acqua, ma anche di altra storia (in verità, anche gli animali naturali o gli animali e basta hanno la loro storia, solo che per noi è muta perché non ci interessa moralmente, anche se a volte accade che gli uomini stabiliscano una corrispondenza affettiva con gli animali ai quali ci accomuna la Vitalità).
I due elementi – quello storico e quello naturale – coesistono. Anzi, l’avanzamento o l’arretramento o il cambiamento della storia è dovuto spesso proprio alla integrazione o alla divergenza tra la storia e la natura. La storia si nutre di nuove generazioni che ne entrano a far parte. I giovani sono il continuo “carburante” che alimenta la storia, proprio perché in loro la parte vitale è ancora più forte della parte culturale. Le nuove generazioni hanno il compito di portare energie e vita per rinverdire un mondo che inevitabilmente incanutisce. La storia per certi versi rappresenta la fine della gioventù. Non a caso Nietzsche nella sua Considerazione inattuale sulla storia – Sull’utilità e il danno della storia per la vita – vede nell’eccesso di storia un pericolo per la vita che ha anche il dovere di far valere i suoi diritti. Ma una vita che fa valere fino in fondo i suoi diritti sulla storia – diritti che poi alla fine sono forza vitale e nulla più – è una vita che distrugge ma non crea. Da una parte l’eccesso di storia può distruggere la vita e dall’altra parte l’eccesso di vita può distruggere la storia. Mantenere il giusto equilibrio equivale quasi a compiere un miracolo.
La storia proprio perché è conoscenza non è una scienza esatta. Anche la storia degli storici non è una scienza esatta. È rigorosa – a volte noiosa – ma non è esatta. Il rigore è dato dalla ricerca, dalle fonti, dall’autorevolezza e, in una sola parola, dalla filologia. Ma poi per fare storia ci vuole una cosa in più: il giudizio (storico). Inevitabilmente il giudizio è pronunciato da noi – dagli storici o da chi per essi – e porta con sé il nostro mondo o condizione che non è priva di interessi. Anzi, sono proprio gli interessi che ci indirizzano alla ricostruzione della storia passata. Perché non tutta la storia ci interessa, non tutta la storia muove le nostre passioni, non tutta la storia ci colpisce o ci tocca. Ci sono storie che sono per noi più importanti perché ci consentono di capire meglio noi stessi e ciò che siamo e ci sono storie che ci riguardano meno e che sono addirittura mute, almeno fino a quando non nasce in noi un interesse di tipo vitale e morale che ci spinge a capire per vivere e agire. Così non è vero che la storia più vicina è per noi troppo vicina e quindi ancora non conosciuta perché troppo “appassionata”, mentre la storia più lontana e remota è meglio conosciuta perché è ormai “spassionata”. La lontananza o la vicinanza temporale possono avere una loro incidenza ma non sono determinanti ai fini della conoscenza.
La storia italiana più recente, quella degli ultimi venti anni, è oggi per noi una storia significativa nella quale si riepilogano gli anni della storia della Repubblica dando corpo a una storia nazionale che, come un dovere verso noi stessi e le generazioni del passato e del futuro, abbiamo la necessità di rivisitare e arricchire per conoscerci meglio e condurci nella vita con dignità e nel mondo con libertà. L’Italia di oggi è il titolo di un libro dello storico Giuseppe Mammarella che riguarda proprio la “storia e la cronaca” del ventennio che va dal 1992 al 2012. Ma non è l’unico titolo. Anzi, il “ventennio bruciato”, secondo la definizione giusta di Ferdinando Adornato, ha già una ricca bibliografia in cui figurano anche i libri di Bruno Vespa, perché tutto è buono a sapersi. A volte, però, si ha l’impressione – forse non sbagliata – che le informazioni e le notizie e i dati siano così esagerati da schiacciare l’autentico giudizio storico che, in quanto tale, ha bisogno per essere esercitato di un’idea ampia e complessiva di humanitas che ai nostri giorni si cerca invano. È come se all’eccesso di storia di cui diceva Nietzsche fosse subentrato un eccesso di dati e sociologie di cui la stessa comprensione storica ne fa le spese.
L’Italia di oggi, per riprendere il titolo del libro citato, non si lascia capire senza l’Italia di ieri e di ieri l’altro. Non che la storia sia una catena senza fine, perché nella storia avvengono anche i salti o le interruzioni o i cambiamenti repentini e i passaggi da un’epoca a un’altra in cui si modifica il modo di vedere la vita umana e finanche di esperirla. Tuttavia, qualcosa permane a unire le epoche, così come il tempo unisce le stagioni, e questo qualcosa è ancora presente nella storia di una nazione come l’Italia i cui centocinquanta anni di storia unitaria sono attraversati da un filo rosso che li tiene insieme dal 1860 ai – come si usa dire – giorni nostri. Le epoche e le leopardiane “morte stagioni” che si sono succedute – lo Stato liberale, il fascismo, la Prima repubblica, la (cosiddetta) Seconda repubblica – sono tante altrettante Italie in cui la nostra storia nazionale di volta in volta si è come riassunta o, con una parola tratta dal gergo informatico, resettata. Ogni volta gli italiani, maestri nell’arte di vivere e sopravvivere, si sono adeguati e acconciati a un regime fino a creare un blocco sociale e di potere che è andato avanti fino a quando con uno schianto improvviso non è venuto giù tutto e liberando tutti ha creato quel caos tra un regime e l’altro che è la condizione della nascita di un nuovo blocco sociale e di potere fino al nuovo crollo e via di questo passo.
Vi sono pagine della letteratura italiana, dai Viceré al Gattopardo, che hanno descritto questo fenomeno di continuità e cambiamento nella continuità che è tipico della storia italiana. “Ai nostri giorni” siamo giunti nuovamente in un momento di caos da cui dovrà rinascere un altro assetto sociale e un altro regime politico in cui gli italiani, fingendo di non aver partecipato alla giostra precedente, faranno finta di credere per star dietro alle necessità della vita? Tutto sembra confermare questa ipotesi in una sorta di infinito corso e ricorso storico all’italiana. Eppure, forse questa volta qualcosa non torna. Questa volta la ricomposizione del corpo nazionale intorno a un blocco sociale e di potere non sembra così automatico e scontato. La storia non sembra in grado di assorbire in sé la forza vitale e questa non appare apportatrice di nuove energie e creazioni. La scarsità delle risorse piuttosto che unire gli italiani e le diverse generazioni in uno sforzo morale, sembra dividerli e cacciarli nel decadimento.
tratto da Liberalquotidiano.it del 24 novembre 2012