Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)
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di Giuseppe Panella
Trittico per Camilleri. 2. Del buon uso della mafia. Andrea Camilleri, Voi non sapete. Gli amici, i nemici, la mafia, il mondo nei pizzini di Bernardo Provenzano, Milano, Mondadori, 20092
I “pizzini” ritrovati nell’ultimo rifugio segreto di Bernardo Provenzano, per più di quarant’anni latitante e lungamente riconosciuto quale capo supremo della “cupola” mafiosa sono un testo di interesse linguistico straordinario non tanto per le informazioni che comunicano ma per il modo in cui lo fanno (e d’altronde l’utilizzazione di questa espressione tipicamente siciliana e le espressioni relative al loro uso è ormai entrata nel linguaggio comune, soprattutto in relazione a fatti della politica). I “pizzini”, dunque, sono strisce di carta comune arrotolate più volte e poi sigillate che Provenzano faceva pervenire, tramite uomini fidatissimi e devoti, ai suoi interlocutori per dare suggerimenti e consigli, imporre ordini, preparare azioni e raccogliere fondi legati alla sua attività criminosa. Del “pizzino”, Camilleri dà questa briosa definizione:
«PIZZINO. Il Mortillaro, autore di un classico Dizionario siciliano-italiano del 1876, così alla voce “Pizzinu”: Piccola carta contenente breve scrittura e dicesi di moltissime scritture in genere. Il pizzino di Provenzano spesso non è una piccola carta, ma un foglio intero generalmente suddiviso per argomento e ripiegato più e più volte fino a diventare una listarella sigillata da un nastro adesivo trasparente. Così ridotto, il pizzino è facilmente occultabile (nel risvolto dei pantaloni, per esempio) e altrettanto facilmente scambiabile (lo si può fare con una semplice stretta di mano). Praticamente impossibile manometterlo senza che la manomissione sia immediatamente scoperta. Certe volte, all’interno di un pizzino, ci sono altri pizzini più piccoli che recano il destinatario siglato in un primo tempo con le iniziali e in seguito con un numero. Uno dei collettori principali si preoccupava di far pervenire i pizzini a coloro ai quali erano particolarmente indirizzati. In genere il pizzino è di “breve scrittura”, solo raramente Provenzano si dilunga, soprattutto quando prende cappello per un fraintendimento o per una trasgressione. Allora è tutto un rabbioso ricopiare e allegare tutto quanto si era in precedenza stabilito con puntiglio degno di un archivista di razza. Non lascia insomma una “i” senza metterci il puntino. Il Mortillaro ci dona un’ulteriore definizione del “pizzinu”: Così chiamasi il polizzino sopra cui sono scritti i numeri della lotteria … da conservarsi da chi ha giocato. E pizzino era anche chiamato il foglietto colorato e più volte ripiegato che un pappagallo ammaestrato, legato a un alto trespolo tenuto da un “maestro di fortuna”, ossia un “mago” ambulante, estraeva col becco, da un contenitore dove i pizzini variopinti stavano fittamente allineati, per porgerlo al cliente. Il pizzino era detto “pizzinu della vintura” perché prediceva l’avvenire e terminava immancabilmente con cinque numeri da giocare al lotto. “Vintura” è parola antica, la troviamo già a chiusa del Contrasto di Ciullo d’Alcamo. A lu lettu nni ghimu di bon’ura / e Diu nni manni la bona vintura. La vintura poteva essere “bona” oppure “mala”. E chissà quanti, aprendo con trepidazione un pizzino di Provenzano, si saranno domandati se quel foglietto arrotolato avrebbe per loro significato una bona o una mala vintura » (pp. 121-122).
Dalla lettura e dall’analisi del sistema dei pizzini inviati da Bernardo Provenzano ai suoi collaboratori, alla sua donna, al suo medico, al suo avvocato, ad amici e nemici, a uomini a lui vicini e fidati e ad altri ancora che sa che potranno diventare a lui avversi, emerge tutto un mondo di rapporti sommersi e feroci, basati sulla sopraffazione e sulla violenza spesso melliflua e occulta delle intimazioni e dell’ambiguità verbale. E’ un intero sistema verbale che si trova all’interno delle carte sequestrate al boss mafioso dopo l’arresto del 11 aprile 2006, dopo ben quarantatre anni di vita segreta e nascosta, in masserie e case coloniche nella campagna siciliana (anche se sono documentate le sue uscite pubbliche soprattutto per cure mediche specialistiche e per un’operazione ad un tumore alla prostata che il mafioso si fece fare addirittura a Marsiglia a spese dei contribuenti del Servizio Sanitario Nazionale sotto il falso nome di Gaspare Troia).
All’interno dei pizzini di Provenzano si possono certamente trovare le somme dei proventi delle estorsioni mafiose ma anche le tracce della cultura popolare cui il boss attingeva e anche degli elementi di un’etica (si fa per dire) mafiosa come l’invito a non toccare le donne degli altri mafiosi (un precetto che, se infranto, poteva portare alla morte del trasgressore), la necessità di essere leali e non mentire nei rapporti intercorrenti tra i diversi mandatari dell’organizzazione criminale mafiosa e di non cercare di assurgere a cariche di potere al suo interno o di regolare questioni personali senza il permesso del capo dei capi. Come dice un pizzino citato da Camilleri a proposito della pratica del raggiunamentu (in traduzione letterale, ragionamento) che, ben lungi dall’essere un’analisi razionale dei fatti accaduti e delle divergenze tra un mafioso e l’altro, si rivela sempre foriero di fatti di sangue, di morti ammazzati e di faide destinate a durare nel tempo e spesso anche nello spazio:
«Più frequentemente il raggiunamentu sfocia nella “conseguenza logica” di una vera e propria battaglia campale. E non è detto che non sia l’inizio di una faida destinata a durare per decenni. Naturalmente un raggiunamentu non ha limiti di tempo, può durare un giorno come una settimana e non può essere interrotto per nessun motivo. Si racconta di un raggiunamentu, al quale presero parte una trentina di persone divise in due gruppi avversi, iniziato con le parole e sempre con le parole proseguito per tre giorni e tre notti, quindi divenuto per un altro giorno scontro armato e poi ancora conflitto a fuoco con morti e feriti da entrambe le parti. Durante quei cinque giorni vennero concordate brevi tregue nel corso delle quali i ragionatori potevano essere rifocillati da vicini solidali. Ovvio che ogni raggiunamentu va tenuto in luogo appartato, protetto da sentinelle neutrali che possano segnalare per tempo arrivi indesiderati di poliziotti, carabinieri, eventuali nemici dei due gruppi in gara eccetera. Provenzano raccomanda di andarci cauti coi raggiunamenti. Ma se il raggiunamento è assolutamente necessario, egli detta sapienti regole di comportamento: Ricordati che non basta mai avere una sola prova per affrontare un ragionamento, per essere certi in un ragionamento occorrono tre prove, e correttezza e coerenza » (pp.146-147).
Il mondo di Provenzano era (ed è tuttora) composto di amici e nemici, di rivali pronti a pugnalarlo alle spalle e di uomini fidati capaci di dare la vita per lui (questo almeno in teoria, dato che uno dei pentiti di mafia più loquaci, Antonino Giuffré, era stato uomo di stretta osservanza provenzaniana).
Per tenere in riga i propri seguaci e controbattere adeguatamente le manovre tessute da quelli a lui avversi (anche se non dichiaratamente), Provenzano aveva bisogno di molta saggezza spicciola e di una forte carica di carismaticità che non poteva ridursi alla sola pratica della violenza come repressione spietata (errore che lo stesso boss attribuiva alla dissennata strategia degli attentati a Capaci come pure a tutto campo in Italia legata alla gestione precedente di Totò Riina).
Inoltre, il boss attribuiva alla Divina Provvidenza e alle sue frequentazioni di carattere religioso (nei pizzini il mafioso si rivela molto devoto anche se legato a forme di superstiziosa religiosità popolare che sfiora il culto pagano) un ruolo di intervento positivo nelle sue attività di carattere criminoso.
Ciò in cui Camilleri ha buon gioco è nel leggere stilisticamente questi pizzini – nel trasformare la loro scrittura spesso sgrammaticata e lessicalmente povera e impropria in una sorta di laboratorio letterario in cui gran parte di ciò che Provenzano ha scritto si trasforma in un momento storico da interpretare con gli strumenti della scrittura narrativa. Ciò che importa, allora, non è il risultato della loro lettura in termini di successo poliziesco o giudiziario – molti dei pizzini sono rimasti, infatti, non ancora decifrati e alcuni personaggi legati al boss mafioso e alle sue attività sconosciuti o conosciuti solo con un numero indicativo della loro importanza e del loro ruolo. Una Bibbia trovata nell’ultimo nascondiglio del boss mafioso reca, comunque, molte sottolineature e tracce di lettura proprio nel quarto libro del Pentateuco, i Numeri, dalle cui pagine e dalle cui numerosissime cifre egli avrebbe potuto ricavare indicazioni a lui solo note capaci, quindi, di mascherare sotto la loro egida sacra, nomi che egli non voleva più fare apertamente. La lettura che lo scrittore di Agrigento compie è, allora, una sorta di viaggio attraverso la mente di Provenzano – un itinerario di grande utilità non tanto per smascherare i suoi crimini (compito quest’ultimo che spetta alla polizia e ai magistrati) quanto la mentalità mafiosa che li sottende e li presuppone.
Facendo tutto questo, Camilleri fa un buon uso delle parole (scritte) della mafia e, quindi, rende anche un buon servigio alla letteratura.
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