Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaire Dreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)
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di Giuseppe Panella
Tommaso Landolfi e i suoi lettori. Scuole segrete. Il Novecento italiano e Tommaso Landolfi, a cura di Andrea Cortellessa, Torino, Nino Aragno Editore, 2009
A Tommaso Landolfi non sono mai andate troppo (o del tutto) le simpatie dei lettori. Infatti, egli è rimasto (quasi sempre) uno “scrittore per scrittori”, amato per lo stile ma non per il carattere, per certe sue invenzioni verbali e non per la potenza espressiva di trame e pathos scrittorio. In buona sostanza, Landolfi è uno scrittore che piaceva (e probabilmente piace ancora) a chi ama la scrittura e il suo gioco di incastro sulla pagina, non a chi legge perché appassionato e/o avido soltanto di sapere come un libro (specie un romanzo) vada a finire…
I lettori migliori del grande scrittore di Pico sono stati anche i suoi recensori (come Giuseppe Dessì su “Primato” nel 1940 o Franco Fortini o Andrea Zanzotto), i redattori di antologie di suoi scritti (come Italo Calvino), i suoi seguaci sulla strada rischiosa ed entusiasmante della sperimentazione linguistica e morale. Ci sono stati ovviamente anche suoi lettori meno agguerriti ma non per questo incapaci di apprezzarne la forza dello stile (in un’occasione non recente, Roberto Benigni mi parlò con apprezzamento del Landolfi di Cancroregina ma lo definì, con bella espressione icastica, uno scrittore “non naturale” cogliendone in parte la verità e il dramma autoriale). E di Landolfi in questo senso non si finirebbe più di parlare… Il fatto è che di lui finora non si è mai parlato abbastanza.
Questa raccolta sul filo dell’ingombrante per il suo spessore ma curata in maniera ottimale da Andrea Cortellessa e salvata dal rischio dell’accademismo dalla leggerezza del suo approccio è di grande utilità per capire chi sia stato “veramente” Tommaso Landolfi.
Come scrive il regista dell’operazione nella sua Introduzione al volume partendo proprio dalla qualifica di “scrittore per scrittori”:
«La qualifica ominosa risuona esplicita nella conversazione di Alfredo Giuliani con Luigi Fontanella. Dice quest’ultimo che “è stato più amato dagli scrittori che dalla critica, o dal pubblico”, Landolfi. E ha ragione. Com’è noto, fatti salvi i primi, pressoché unanimi battimani – al rapinoso start di Dialogo dei massimi sistemi, Pietra lunare e Mar delle blatte – anche la critica “di coppella”, per dirla con una sua espressione, s’è visibilmente discostata dal “caso” legato al suo nome (il decorso, conosciuto, degli apprezzamenti continiani è, al riguardo, eloquente cartina di tornasole); magari per riaccostarglisi, postumamente, non senza resipiscente amarezza (meno noto, ma altrettanto eloquente, il caso di Luigi Baldacci; lo stesso andamento delle quotazioni da parte di Giuliani, come si vedrà, è assai meno lineare di quanto farebbe pensare la stazione d’arrivo). Mentre, a scorrere il dossier in nostro possesso, quel “pubblico” tutto particolare che è la platea dei colleghi, dal 1938 al 2008, non ha mai cessato di seguire a occhi sgranati le acrobatiche evoluzioni di Landolfi sulla corda tesa. Qualcuno, magari, col sadismo sottile di segretamente augurarsi che l’insolente virtuoso facesse, una buona volta, il passo più lungo della gamba; la maggior parte, invece, con ammirazione sincera e, il più delle volte, quasi fanatica. E’ interessante il motivo, di tutto questo. Dice Giuliani, sempre nel sugosissimo dialogo con Fontanella, che forse il lettore ideale di Landolfi è uno scrittore perché, per apprezzarlo, si deve ”restare anche affascinati dal modo di raccontare e di scrivere”. In realtà, pur non essendo per esempio io uno scrittore, è esattamente questo il motivo per cui l’ho sempre venerato» (pp. VII-VIII).
Questa qualità della scrittura di Landolfi come fascino non poi tanto segreto riverberato sull’ammirazione dei suoi critici/lettori rimbalza e si ritrova, omnes et singulatim, in ognuno dei testi riprodotti nel volume. A partire da Alfonso Gatto per finire con l’ultimo, ma non certo il peggiore, il regista Luca Archibugi in Il teatro dei lemuri del 2008, cui appartiene questo folgorante lemma che l’antologia viene a chiudere. Dopo aver figurato che il teatro sia il vero fil rouge dell’apoteosi landolfiana del linguaggio, l’autore del saggio candisce nel finale:
«Così è dal regno delle ombre che ci parla Landolfi, un Ade costellato di astri, donne, piaceri, gioco, eleganza, perché oltre la morte ci sarà sempre un’altra ombra di cui potremmo udire la voce, un cammino purissimo fatto di lemuri vaganti che non godranno appieno della carne, ma sapranno trarsi in salvo in una striscia di terra immaginaria, sapranno guardare a ciglio asciutto al sembiante che si vanifica, privi di memoria, erratici e beffardi. A capo dell’orda di fantasmi del mondo sarà Tommaso Landolfi, inappuntabile, vestito di scuro, e il suo incedere trasformerà in contegno il claudicante passo dei molti, e con un semplice inchino resterà avvolto dal sipario che s’apre e si chiude, in un gesto ripetuto in eterno con le luci di sala ancora spente, in fuga dalle fattezze di un reale che non è mai esistito» (p. 331).
Si sarebbe tentati di aggiungere in limine: il resto è silenzio a mo’ di unica chiosa teatrale.
Le recensioni, i testi letterari, i saggi e le note relative all’opera di Landolfi sono tutte contrassegnate dallo stupore relativo alla capacità della sua scrittura di riuscire ad andare oltre le naturali sperimentazioni della letteratura, la sua decisione nel superarla quale forma apparentemente già consolidata dell’apparire del linguaggio e del suo considerarsi lingua già formata. Quella dello scrittore di Pico è, invece, sempre in progress, in attesa di diventare altro, in perpetua metamorfosi dall’antico al nuovo e dal nuovo all’antico, dal passato non più presente al presente che rischia di non diventare futuro neppure remoto.
Quando Moravia dice in un suo Ricordo di Tommaso Landolfi:
«Tornando a Landolfi, io credo di vedere il rapporto che c’è fra Landolfi e i prosatori italiani prima di lui, probabilmente, principalmente Leopardi, secondo me. Ora questo innesto, questa volontà di ri-scrivere la prosa italiana, veniva fuori da una certa distanza. Direi che Landolfi non cessava mai di essere filosofo e qui viene fuori il senso del pastiche di Landolfi, cioè l’ironia non si esercitava soltanto verso la realtà ma anche verso la sua professione di scrittore, verso quello che scriveva lui stesso, non tranne Landolfi, e questa è la cosa divertente. C’è un’affermazione e c’è al tempo stesso la negazione di questa affermazione o, per lo meno, la sua relativizzazione, con l’ironia che a un certo punto distrugge proprio quello che fa. E’ una tela di Penelope continua» (p. 148)
coglie in realtà proprio questo aspetto. Lo stesso avviene quando Pavese scrive nel suo diario di scrittore, quel Mestiere di vivere pubblicato postumo nel 1952:
«18 novembre [1939]. Compreso, leggendo Landolfi, che il tuo motivo del caprone era il motivo del nesso tra l’uomo e il naturale-ferino. Di qua il tuo gusto della preistoria: il tempo in cui s’intravede una promiscuità dell’uomo con la natura-belva. Di qui la tua ricerca dell’origine dell’immagine in quei tempi: la promiscuità di un primo termine (solitamente umano) con un secondo (solitamente naturale) che sarebbe qualcosa di più di un semplice fantastico: una testimonianza di un nesso vivo» (p. 5).
In questa dichiarazione c’è tutta la capacità espressa da Landolfi (soprattutto quello della prima fase letteraria) di andare oltre la letteratura mediante la letteratura stessa, attivandone il “nesso vivo” tra lingua e forza espressiva dell’immagine (questo elemento è ben presente nella congiunzione umano-ferina che è al fondo di La pietra lunare).
E qui nel citare si potrebbe andare avanti per pagine e pagine, non la si finirebbe mai con Landolfi (come Pietro Paolo Trompeo ha scritto della ricerca critica su Stendhal). Ma, a differenza dello scrittore di Grenoble che era “adorabile” (come lo definisce Sciascia tra gli altri), Landolfi non lo era affatto. Era terribile e/o sublime, capace di affondi, fendenti e lampi scintillanti, di tagli umani feroci e di straziati abbandoni alla poesia.
Questa antologia curata da Cortellessa, allora, restituisce certo con luce radente e impatto mirato ma sempre con integrità critica e prospettiva storica lungimirante, il fascino esercitato da Landolfi sul Novecento italiano e le sue propaggini tra sperimentazione linguistica e culto della scrittura. Il suo merito è indubbio come pure la qualità della ricerca compiuta.
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