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di Giuseppe Panella*
Non c’è dubbio: è il migliore dei migliori anche se costa molto, talvolta troppo. Se ne è reso conto anche il signor Mustafà, misterioso levantino dagli innumerevoli traffici che organizza da Tunisi tutti gli eventi più importanti legati alla criminalità organizzata internazionale. Si tratta di un uomo potentissimo anche se non ha mai avuto un vero ufficio e tratta gli affari che gli interessano “in un piccolo chiosco di vendita tè, caffè e pesce fritto” (p. 10): si tratta di un classico esempio di “banalità del male”. Mustafà odia gli infedeli e vorrebbe vederli tutti morti ma non rifiuta il loro denaro e si occupa sapientemente e spietatamente dei loro affari sporchi. La convocazione del migliore agente che il tunisino ha a disposizione è legata alla necessità di eseguire una missione “speciale”, tanto speciale che in principio è difficile da esporre. Mustafà ricorre a una metafora escrementizia piuttosto forte per spiegarla e introdurre il killer all’argomento ma anche così non è molto facile da mandar giù. Inoltre si tratta di entrare nel personaggio e di capire la mentalità profonda della vittima per poter meglio superare le sue barriere di sicurezza.
«In effetti il lavoro è complesso. Ho portato a termine le missioni più complicate e pericolose, sono entrato in dimore inaccessibili, operazioni militari nei siti caldi, America latina, Afghanistan, repubbliche baltiche, ma mentre ascolto la sua esposizione penso che questa è particolarmente delicata. Dovrò recitare una parte come un attore consumato e compiere gesti precisi, senza sbagliare, senza confondermi sui particolari più minuti o fallirà. E dovrò prepararmi. Nei prossimi giorni inizierò un corso di addestramento speciale con la consulenza di uno psicologo che mi illustrerà il profilo del mio obiettivo. E suggerirà quali atteggiamenti devo assumere, quali espressioni facciali, come modulare la voce. Nella deve essere lasciato all’improvvisazione. Il mio obiettivo ha chiesto uno specialista, e io dovrò travestirmi da specialista» (p. 17).
Come sempre in questo tipo di romanzi, è l’addestramento la parte più interessante del racconto (di solito lo è più dell’azione in sé e per sé – e anche in questo caso non ci sono eccezioni). Lo specialista viene mandato in un campo situato “nel territorio più impervio del Pakistan” (p. 20) dove i talebani destinati ad azioni suicide vengono preparati al supremo sacrificio. In quanto al protagonista del romanzo, è questo il luogo in cui potrà usare il corpo vivo di un traditore (o supposto tale) come cavia per esercitarsi in vista della sua missione. Dopo di che, entrato in parte, sicuro di poter operare senza problemi e con la sicurezza di sapere bene cosa fare, la missione entra nella sua fase esecutiva. Un potente della terra, il finanziere Martinson, prende il proprio piacere nel subire delle violenze più che altro simboliche (ma, in realtà, anche fisiche anche se non particolarmente forti) da parte di uomini alti, biondi e con gli occhi azzurri. Il suo staff e soprattutto la sua segretaria-governante, la signora Mitchell, sovrintendono a questo rito periodico. La condizione principale per la riuscita dell’incontro, però, è che non si versi sangue in alcun modo…
Il romanzo breve di Mauro Baldrati (che, per l’occasione, assume lo pseudonimo informatico di Baldrus) è teso, serrato, molto forte nei toni della scrittura e non lascia molto respiro al lettore (il numero ristretto di pagine aiuta a ridurre i tempi morti nella descrizione delle vicende narrate).
Il risultato è un thriller molto intenso, quasi onirico nella sua ultima parte (quella dedicata alla seduta sado-masochistica con il finanziere che è nel mirino degli arabi e soprattutto del signor Mustafà) e ironico, talvolta sarcastico, sempre distaccato nella prima parte (l’assegnazione dell’incarico allo specialista). I personaggi sono vagamente surreali, descritti con taglio fumettistico (spia della precedente vocazione dell’autore), estremizzati nei loro tratti fondamentali, senza lo spessore più psicologistico che avrebbe contraddistinto un romanzo mainstream. Il testo, infatti, vuole essere decisamente un romanzo “di genere” con tutti i pregi e, ovviamente, anche le limitazioni del caso. Eppure, nonostante questo e nonostante il fatto che la concentrazione delle pagine non permetta dilatazioni stilistiche, a volte l’emozione e la spinta narrativa traboccano al di là del distacco voluto nella narrazione: si ha l’impressione di assistere a uno psicodramma dove l’autore si libera di una parte di sé, ritenuta inaccettabile, trasportandola sulla pagina. Sono i momenti migliori di un testo dove l’Io dell’autore è fortemente contenuto nelle pieghe dello scritto di genere e sembra lottare contro le regole che si è auto-imposto. Per questo motivo, l’impatto sul lettore potrà essere maggiore e il risultato estetico conseguito superiore alla media di questo tipo di testi narrativi.
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)