Genesi del serial killer. Marilù Oliva, Repetita, Bologna, PerdisaPop, 2009
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di Giuseppe Panella*
Lorenzo Cerè è un serial killer ma non lo saprebbe mai nessuno se non si rivolgesse ad una psichiatra, Marcella Malaspina, per cercare di ovviare con dei medicinali efficaci ai suoi terribili mal di testa. Lorenzo avrebbe voluto studiare Storia all’Università invece di svolgere le mansioni di operaio specializzato in una fabbrica di macchinari per fabbricare sigarette. La passione per le vicende storiche del passato gli è rimasta come pure il desiderio di vendicarsi di coloro i quali si sono comportati male con lui o gli hanno fatto dei torti, veri o presunti. Per cogliere la propria vendetta, li uccide in maniera spietata e orribile e lascia sul terreno del suo delitto una traccia storica con la quale sigla il suo crimine (“copia” un evento storico molto noto come riferimento alla vittima uccisa e alle sue colpe – un guanto di ferro mimerà, ad esempio, lo “schiaffo di Anagni” dato da Sciarra Colonna a Bonifacio VIII o una foto di un aspide la morte di Cleopatra d’Egitto così come la scritta in Word “traditore del re” alluderà alla macabra messinscena del corpo di Concino Concini che si faceva chiamare il maresciallo d’Ancre, ministro toscano ladro e vanaglorioso di Luigi XIII da lui fatto assassinare insieme alla moglie). Questa abitudine assimila il protagonista all’assassinio seriale di Copycat – Omicidii in serie, un film – peraltro mediocre – di Jon Amiel del 1995 con Sigourney Weaver, Holly Hunter e Dermot Mulroney..
Lorenzo Cerè è stato un bambino maltrattato: morto il padre quando aveva sei anni, in balia dell’amante della madre, una donna svanita e succube di sonniferi e barbiturici (morirà per un’overdose di farmaci), ha subito soprusi terribili e disgustosi (ha dovuto mangiare una cimice, vedere il corpo imbalsamato del suo cane prediletto, farsi strappare i suoi tre nei, far morire folli di fame e paura un cane e un gatto). Mariano, il nuovo compagno di letto della madre, lo odiava e, prendendolo a cinghiate tutti i giorni, gli diceva: Repetita iuvant (da cui il titolo del romanzo)., probabilmente senza sapere cosa volesse dire.
Anche Lorenzo “ripete” i suoi delitti per punire le sue vittime e, contemporaneamente, provare il piacere formidabile e incontrastato del potere assoluto su un altro essere umano. Come il protagonista di un romanzo spaventosamente verosimile sulla natura profonda del male opera di James Ellroy (L’angelo del silenzio del 1986), Lorenzo uccide per sentirsi potente e dominare il corpo impazzito per il dolore delle sue vittime. E’ un ammiratore di Jeffrey Dahmer per la semplicità delle sue tecniche di approccio alle vittime – attira in luoghi defilati o deserti le sue vittime, li costringe a bere delle bibite contenenti dei sonniferi e poi li uccide tra atroci tormenti ma non le violenta mai, limitandosi a cogliere il piacere dal loro dolore.
E non è neppure impotente perché ha una vita sessuale intensa e poliedrica – trova delle donne da usare fisicamente nei locali della Bologna by night in cui vive, li porta in un suo scannatoio sito in via Saragozza, gode del loro corpo e poi le butta fuori. Si rifiuta di continuare ogni rapporto con loro e cerca di non rivederle mai più (una povera sfortunata infermiera di tendenze un po’ masochiste che ci proverà, Emma Tinti, finirà strangolata senza remissione e gettata in un fosso dalle parti di Medicina). Lorenzo Cerè potrebbe continuare all’infinito la sua vicenda di serial killer
e di seduttore seriale se non si innamorasse della sua psicoanalista-psichiatra e si provasse a smettere di uccidere per amore di lei. Nonostante la severissima deontologia professionale dell’Ordine lo vieti, il controtransfert di Marcella Malaspina non funziona e anche lei si innamora di lui fino al punto di portarselo nel proprio appartamento una notte in cui, parzialmente ubriaca di vodka alla fragola, lo troverà seduto al bar del Single, locale notturno à la page della città felsinea. A casa di lei, basterà un tocco quasi fortuito sul cavallo dei pantaloni di lui per produrgli un orgasmo irrefrenabile. In quel momento, entrambi si accorgeranno di essere innamorati reciprocamente. Anche se la psichiatra bella e affascinante cercherà di sottrarsi al sentimento che in qualche modo lo lega al serial killer, solo la consapevolezza della natura omicida di lui gli permetterà di liberarsene. Le indagini della polizia si faranno sempre più serrato finché un elemento imprevisto permetterà di restringere il campo delle indagini. Sarà, però, la fine per Lorenzo che scoprirà le proprie carte sempre più uscendo dalla difesa a riccio in cui si era trincerato fino ad allora. L’amore per la sua analista lo condurrà, alla fine, alla morte.
Il romanzo di Marilù Oliva è un noir del tutto atipico nel panorama italiano in quanto riesce a costruire una figura piuttosto credibile di serial killer in un contesto, quello bolognese, che sembrerebbe alieno da simili figure così lontane dagli standard della città bolognese. Va detto che la città del DAMS si sta riempiendo sempre più spesso di figure criminali e di investigatori pubblici o privati alla loro caccia, in un’accelerazione di morte e desolazione che non sembrano molto consone alla “bella città / dove si mangia, / si beve, / e bene si sta” di cui Lazzaro Scacerni, in Il Mulino del Po, a fine Settecento, canta le lodi al proprio primogenito per farlo addormentare. Bologna sembra qui, invece, una “città nera”, popolata di ombre cupe e feroci, vittima di una crisi di motivazioni e di valori, affascinata dal male e dalla morte come una città tentacolare quale Los Angeles o Londra allo stesso modo in cui lo è Lorenzo Cerè:
«La sera e la notte del primo omicidio è come un primo appuntamento. E’ un battesimo del fuoco. Niente si ripeterà mai così intensamente. L’aria è come dopo alcuni tramonti di inizio marzo, quando un vento primaverile soffia di sorpresa, sbuca da dietro le fronde e diffonde in corpo vampate d’irrequietezza. Il male è sempre interpretabile. Quando ho cercato Gessico [la sua prima vittima] era un’eclissi nel taschino dei jeans, irrefrenabile. L’avevo rintracciato ancora qui, a Bologna, in una discoteca di periferia molto chic. Il problema più complicato è stato non farmi riconoscere: mi sono attrezzato con una parrucca color castano chiaro che nulla aveva a che vedere col mio colore moro, ho indossato degli occhiali da vista, mi sono vestito come un ventenne e sono andato incontro al suo destino che lo aspettava in discoteca. Era circondato da amici e gironzolava attorno a una ragazza. Il mio piano prevedeva che lo drogassi e ne lo portassi via, tecnica già applicata con eccellenti riscontri dal celeberrimo serial killer del Milwaukee, Jeffrey Dahmer. Dahmer era un mito in merito a semplicità di esecuzione. Offriva da bere bevande drogate con modi quasi timidi e con una faccia da cherubino che aspetta una vecchietta da far attraversare. Il piano di partenza era emularlo» (p. 19).
Questo romanzo, allora, si rileva un modo esauriente di leggere il male da cui sono impastate le relazioni sociali che costituiscono la sostanza malata e devastante della società del nostro presente e per cercare di capire come andare oltre di esso in maniera tale da provarci a lasciarcelo alle spalle.
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)