Notte italiana. Sergio Paoli, Ladro di sogni. Storia noir di una Milano marginale, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2009
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di Giuseppe Panella*
Anche con questo noir di Sergio Paoli siamo sempre all’interno della “notte e nebbia” della storia italiana di sempre – fatta di servizi segreti, di razzismo esplicito ed eterodiretto, di morte, di pedofilia, di dolore… La Milano di cui si parla nel romanzo, tuttavia, è solo apparentemente marginale. E’ al centro, invece, di un esperimento politico di governo che vede la sicurezza al centro di un dispositivo di controllo generale sulle azioni e sulle coscienze dei cittadini. Il consigliere comunale Denis Monastiroli, parlando con il protagonista del libro, il vice-commissario Federico Marini ora facente funzione di commissario capo, esplicita il contenuto razzista e forcaiolo del nuovo corso politico (di cui è un esponente di rilievo e che è ormai subentrato a livello generale) con un discorsetto semplice semplice e perfino un po’ banalotto ma non per niente meno agghiacciante:
«– Mi dica cosa ha visto, esattamente, ieri sera.
– Quello che abbiamo visto tutti. Una feccia di ladri sporchi che uccide un italiano.
– Mi sa descrivere chi ha appiccato l’incendio? Che ora era, esattamente?
– No, non li so descrivere. Sono tutti uguali. La gente qua pensa che sono come le scimmie. E se la polizia non fa niente, non va bene. Dovete fare la vostra parte e proteggere i cittadini onesti. La gente normale, che lavora. Non sottovaluti questo.
A Marini partì un forte mal di testa. Cercò di assumere un tono conciliante. Serenamente e pacatamente, disse:
– Non si preoccupi. Stiamo indagando e troveremo i colpevoli. Non sottovaluto nulla.
– Vede, commissario. Questo è un grande Paese. Il suo popolo vuole solo sentirsi sicuro. Che importa in fondo, il resto? La gente non vuole tornare giovane. Ma sentirsi felice, ragazzina, come in quei momenti spensierati, senza pensieri, problemi o preoccupazioni. Quando tutto andava bene, ed eravamo padroni a casa nostra. E soprattutto quando non c’era tutta questa merda di zingari e maruchèin di adesso! Che dobbiamo lavorare per loro, pagargli i conti e pure ringraziare. Eh no!
– Già. La saluto.
– La saluto anche io – Coglione, pensò, allontanandosi in fretta» (p. 120).
In una dimensione sociopolitica in cui è questo il pensiero dominante e in cui le azioni si misurano e si realizzano su questa base, il compito del vice-commissario Marini, uomo deluso dalle vicende in cui si è trovato a testimoniare il proprio interesse per la verità (ha parlato alla stampa delle violenze sui dimostranti contro il G8 che sono avvenute nella caserma di Bolzaneto e per questo motivo è stato trasferito) e molto disincantato nei confronti della vita (è reduce da una rottura sentimentale con la sua ex-compagna Valeria) risulta molto difficile.
Ma il romanzo di Sergio Paoli non è soltanto la storia di un vice-commissario in crisi, della sua ricerca della soluzione in un caso complicato di morte violenta (i cadaveri che costellano la storia sono due: una ragazza strangolata e un pedofilo recidivo bruciato vivo), del suo tentativo di rifarsi una vita con una nuova donna in cui avere fiducia (Viola Di Bastiano, reduce da una violenza carnale ad opera dell’Amministratore Delegato della società immobiliare in cui lavorava). E’ anche la narrazione della morte scellerata di un pedofilo (Giampaolo Rusconi) e di una delle sue vittime, Giorgio Nava, che da ragazzino era stato molestato proprio da Rusconi, addetto alla sicurezza in un grande centro commerciale dove quest’ultimo cambiava le etichette dei prezzi ai long-playing che gli piacevano e li comprava così a un costo molto ribassato. Scoperto e identificato, il ragazzo aveva dovuto subire le avances del pedofilo; dopo quell’episodio per lui vergognoso e squalificante, Giorgio non aveva più sopportato l’idea di essere toccato da qualcuno e aveva evitato quindi di avere rapporti sessuali con donne che non fossero prostitute. Quando però aveva conosciuto la prosperosa Annamaria Bianchi e se ne era invaghito, ricambiato allo stesso modo dalla donna, non aveva potuto fare a meno di accettare un invito a cena che doveva essere il preludio ad un contatto più intimo. Travolto dalla nevrosi e dal ricordo dell’esperienza sconvolgente provata con il pedofilo, era stato colto da un raptus e l’aveva uccisa, cancellando poi tutte le tracce del suo passaggio. Ma l’episodio delittuoso lo aveva spinto a cercare chi ne era stato il diretto responsabile. Trovato Rusconi su una chatline e agganciatolo con la falsa informazione di essere un tredicenne appassionato di vecchi dischi in vinile, lo aveva assalito e colpito a martellate. Il suo intento era quello di bruciarlo all’interno della casa mobile in cui viveva ma, all’ultimo momento, era subentrato il disgusto per ciò che aveva fatto e la convinzione che nulla avrebbe potuto cancellare il passato, nemmeno la morte atroce di chi aveva condizionato in maniera così forte il suo destino. Come penserà poi alla fine del romanzo proprio il vice-commissario Marini, Rusconi aveva distrutto tutte le possibili aspettative nella vita ai ragazzini che aveva molestato, era stato, quindi, “un ladro di sogni” nei loro confronti.
«E chissà quante altre vittime di Giampaolo Rusconi e di altri essere come lui erano in giro. Bambini cui un giorno erano stati rubati i sogni. L’innocenza anche, certo. Ma quella, prima o poi, la perdiamo tutti, in un modo o nell’altro. I sogni, invece, sono l’ultima cosa che vorremmo perdere. L’estremo rifugio in cui ci avvolgiamo, nel tentativo di dare un senso alla nostra vita. Un ladro di sogni: questo era stato Giampaolo Rusconi. Ladri di vite, invece, i suoi assassini. Anche se avrebbe preferito mille volte poterlo sbattere dentro a vita e guardarlo consumarsi, senza poter fare più male a nessuno, non riusciva a provare compassione per la sua morte. Era stato bruciato vivo. Con l’illusione di potersi salvare, solo perché Giorgio Nava aveva vacillato nel suo desiderio di farsi giustizia da solo. E poi era stato costretto ad una morte penosa, tra sofferenze indicibili, sacrificato sull’altare di un disegno di paura, di razzismo, di xenofobia. E non era solo quello: erano gli affari, la molla dietro a tutto. Ti marcisce la vita, così. Senza sogni, senza un futuro in cui si possa immaginare l’amore, quello che resta è l’odio» (p. 224).
Ma, se non era stato Giorgio Nava in cerca di vendetta, chi aveva appiccato il fuoco, allora, alla residenza mobile del pedofilo Rusconi? Il finale della storia riserva delle sorprese e non certo piacevoli. Come troppe volte accade nella storia italiana, entrano in gioco i Servizi segreti (“deviati” o meno poco importa) e la volontà di creare una nuova “strategia della tensione” – come era accaduto alla fine degli anni Sessanta e come periodicamente si verifica nell’ “Italia dei misteri”.
Ma Marini, nonostante tutto, riuscirà a trovare il “suo” colpevole, chi ha bruciato vivo Rusconi per creare odio e furore popolare contro i rom che a tutti i costi devono essere sloggiati dal terreno su cui sono stati molto sommariamente costretti a stabilirsi. In un intreccio perverso tra politica e affari, la volontà di verità appartiene solo a qualcuno – che, per fortuna, è rimasto a galleggiare nel mare magnum dell’immondizia (metaforica e reale).
Marini riuscirà anche a trovare una possibile catarsi sentimentale con Viola e provare a vivere in un mondo reale che non fosse quello del fantasy dove trovava spesso e provvisoriamente un po’ di respiro, un rifugio contro il dolore lancinante del vivere.
Ladro di sogni è, quindi, un thriller un po’ anomalo (ma certo in linea con quelli che ormai si scrivono con abbondanza in Italia e che le case editrici richiedono ai loro possibili autori con voracità da Moloch). Libro pieno di rabbia e di amarezza condita con l’impegno civile di altri tempi, è, in sostanza, un romanzo dove il Male non conosce sconti e il Bene fa timidamente solo capolino, in un’ottica disperata e piena di rimpianti per quell’Italia che poteva essere dopo la Resistenza (e forse Tangentopoli) e non è mai stata: il regno dell’ipocrizia e della “sicurezza” cercata a tutti i costi, della paura indotta e del nemico invocato ad arte, dei dossier come instrumentum regni (avrebbe detto Niccolò Machiavelli) e del dolore come forma di coprifuoco morale, della corruzione come prospettiva condivisa anche da chi dovrebbe combatterla.
Ma una vita senza sogni è sterile e opaca come il deserto che nessuno potrà mai attraversare senza sacrificare il meglio di sé sull’altare del conformismo e della morte civile.
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* Negli anni tra il 1896 e il 1901 (rispettivamente nel 1896, 1897, 1899 e 1901), Anatole France scrisse quattro brevi volumi narrativi (ma dal taglio saggistico e spesso erudito) che intitolò alla fine Storia contemporanea. In essi, attraverso delle scene di vita privata e pubblica del suo tempo, ricostruì in maniera straordinariamente efficace le vicende politiche, culturali, sociali, religiose e di costume del tempo suo. In particolare, i due ultimi romanzi del ciclo presentano riflessioni importanti e provocatorie su quello che si convenne, fin da subito, definire l’affaireDreyfus. Intitolando Storia contemporanea questa mia breve serie a seguire di recensioni di romanzi contemporanei, vorrei avere l’ambizione di fare lo stesso percorso e di realizzare lo stesso obiettivo di Anatole France utilizzando, però, l’arma a me più adatta della critica letteraria e verificando la qualità della scrittura di alcuni testi narrativi che mi sembrano più significativi, alla fine, per ricomporre un quadro complessivo (anche se, per necessità di cose, mai esaustivo) del presente italiano attraverso le pagine dei suoi scrittori contemporanei. (G.P)