Dopo aver lasciato il lettore in medias res, sul fermo immagine, nel bel mezzo del matrimonio di Lila, la Ferrante riapre Storia del nuovo cognome con un artificio che ripeterà, grosso modo, anche nei libri terzo e quarto, vale a dire senza riprendere da dove ci si era interrotti, ma riportando l’attenzione del lettore al piano temporale (quello del lungo flashback, il racconto della vita delle due amiche, lungo cinquanta anni) dal quale si muove la voce narrativa.
Una data (1966), e un luogo (Pisa, il ponte Solferino, il fiume Arno) si stagliano così come prima immagine: Lenù ci dice di aver ricevuto da Lila in custodia dei quaderni (di appunti personali, di vario genere), consegnati dietro richiesta di esplicita promessa di astinenza alla lettura. La promessa viene, ce lo dice Elena stessa, va da sé, disattesa ipso facto. Elena legge, prende coscienza del pensiero di Lila su quegli stessi eventi che lei sta tentando di mettere su pagina; e poi decide, in una sera di novembre, di gettarli in acqua, lasciandoli andare.
Si tratta di una informazione significativa, che il lettore – portato a perdersi, forzatamente, nella girandola di pagine e di eventi – farebbe bene invece a trattenere, con coscienza, perché regala due frammenti fondamentali (almeno a giudizio della ‘povna) per confermare (da un lato) l’orizzonte tematico in cui si muove il progetto-Ferrante e suggerire (sul versante più propriamente narratologico) qualche dubbio di inattendibilità sulla voce che ci sta regalando le pagine in lettura. Per quanto riguarda il primo punto, infatti, se la fine dell’Amica geniale aveva rivelato un’ascendenza dalla Meglio gioventù abbastanza esplicita, la scelta di ripartire dallo stesso anno (cruciale), il 1966, anche per la storia di Lila e Lenù appare abbastanza forte; se si tiene conto, per di più, che a novembre del 1966 l’Arno in cui Elena butta i documenti di Lila è quello stesso fiume che è appena passato da Firenze, strabordando gli argini, e generando quella alluvione che sarà – nel film di Giordana e per un insieme eterogeneo e sovra-nazionale di giovani – passaggio generazionale.
Per quanto riguarda l’attendibilità del narratore, invece, basterà ricordare che in questo modo Lenù ci rivela, casualmente, la sua decisione consapevole di sbarazzarsi di ogni prova scritta che possa comprovare la voce di Lila sugli eventi – con ciò rivelandoci con grande spudoratezza che un solo punto di vista, il suo proprio, è quello che il lettore deve accettare, forzatamente e per tutta la durata del racconto, sulle vicende narrate.
Poi il fuoco si sposta di nuovo, e il capitolo 2 riprende il corso degli eventi. Si riparte dal matrimonio di Lila (suo il nuovo cognome che dà il titolo) per poi narrare, secondo il collaudato sistema delle vite parallele, gli anni da ‘signora’ di Lina Cerullo, ora in Carracci, e insieme quelli di Lenù, che continua la sua carriera, brillante e volitiva, da scolara. Il racconto procede fino alla fine della giovinezza, che vedrà Lila e Lenù cambiare le loro vite, ma insieme lasciarle uguali, un’altra volta: Lenù finendo il liceo brillantemente, superando il concorso in Normale, accasandosi come fidanzata ufficiale del rampollo di una famiglia cultural-altoborhese di sinistra (gli Airota) e trasferendosi, dunque, prima a Pisa e poi a Firenze; Lila mandando a monte il suo matrimonio, lasciando “il rione” per la prima e unica volta, facendo l’operaia e ricostruendosi una vita con Enzo Scanno.
Ma il centro del romanzo sono, e restano, le pagine del soggiorno delle due amiche a Ischia, nelle quali re-incontrano, e frequentano, quello che è stato giustamente definito il vero, unico e autentico villain della tetratologia tutta, vale a dire il personaggio di Nino Sarratore. E’ per lui – ‘amore’ romantico di Lenù, già da bambina – che Lila, travolta da una passione irrazionale e totalizzante, decide infine di lasciare il marito, Stefano; ed è sempre per causa di Nino (che abbandonerà Lila a una manciata di giorni dalla fuga) che si ridurrà prima sull’orlo della follia, e poi a fare l’operaia in un salumificio con condizioni di lavoro improponibili; così come di Nino penserà di essere rimasta incinta (una gravidanza, questa seconda, che determinerà la sua scelta di fare ritorno, insieme a Enzo, nel rione). Nelle pagine di Ischia ai modelli già ricordati si aggiunge così quello dell’Isola di Arturo di Elsa Morante (per il tono da iniziazione, ma anche quello della sospensione, così come del passaggio rituale da adolescenza a età adulta, per entrambe); anche se il film di Giordana resta comunque sullo sfondo. In alcuni personaggi (Mariarosa Airota, la cognata di Lenù, innanzi tutto), ma anche nelle scelte geografiche che segnano il romanzo: se nella Meglio gioventù ci sono Roma e Torino, e Firenze; qui Napoli e Pisa, con Milano sullo sfondo editoriale) segnano altrettanti allotopi, in una sorta di mappa romanzesca dell’evoluzione dell’Italia. La storia si conclude a Milano (dove la voce narrante ci ha detto che Nino si è trasferito, dopo la storia con Lila, ricominciando a fare lo studioso promettente), alla prima presentazione del libro di Lenù (che occhieggia alla produzione letteraria dell’autrice, in un rovesciamento da autofiction), ancora con un fermo immagine. Ed è proprio sulla figura di Nino, sullo sfondo, che Lenù – e con lei l’autrice – interrompe ancora una volta, provvisoria, la sua voce.
(Ovviamente, per il venerdì del libro).