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“Storia della bambina perduta” di Elena Ferrante – Apologia del feuilleton? E sul perché l’insorgere della Sindrome KMN mi ha impedito di scaricare il testo completo.

Creato il 02 settembre 2015 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali
bimbaperduta-1di Rina Brundu. Galeotto è stato questo articolo di Joan Acocella sul The New Yorker “Elena Ferrante’s New Book: Art Wins”. Basta!, mi sono detta: la letteratura è morta ma a leggere gli elogi italici  (e di Little-Italy) senza contenimento alla misteriorsa scrittrice Elena Ferrante, sembrerebbe che qualcosa sia sopravissuto con la sua arte, scarico subito un libro!

Conoscendo l’innata propensione della “critica” nostrana per le celebrazioni senza ragion d’essere ho però optato per il solo scarico iniziale del “sample” del romanzo “Storia della bambina perduta”. Del resto era più che sufficiente: si tratta di dieci capitoli circa. Di fatto il lavoro completo consterebbe di circa 500 pagine o giù di lì che al giorno d’oggi è una vera e propria impresa perché i casi sono solo due: o è tutto oro colato e dunque complimenti all’autrice!, o si è scaduto nella self-indulgence scritturale e francamente quest’ultimo è un peccato talmente bambinesco, veniale, che non ci si arrabbia neppure e si manda semplicemente il briconcello a letto senza cena (i.e. si scaraventa – idealmente, vista la versione digitale – il libro della finestra e poi si chiude a doppia mandata nel caso un incauto lettore buonista e/o editore politically correct voglia restituirtelo).

Dico ciò perché a differenza dei tanti autori italiani che ho letto di recente (alcuni vincitori di premi prestigiosi), la scrittura della Ferrante è senz’altro modern enough… neat, clean, and well looked after enough. Per certi versi pare una sorta di applicazione maniacale di tutte le regole di “editing” proposte nell’On writing di Stephen King, una faccenda che se da un lato può fare la gioia dei maestrini delle elementari dall’altro, per ovvie ragioni, si priva sia di genialità retorica sia della capacità di sorprendere a livello denotativo e morfologico all along nel percorso narrativo.

Detto altrimenti lo scritto sembrerebbe appartenere a qualche professionista in età del mondo editoriale, uno o una che conosce i trucchi del mestiere e proviene dalla middle-upper class. Conosce insomma il “gusto” necessario per intrattenre la massa mediamente acculturata, ecco perché a primo guardare il testo in questione pare una sorta di apologia del genere feuilleton che usava nei secoli passati (e non solo). Dico pare semplicemente perché ho poi deciso di non scaricare il libro completo e magari la mia iniziale impressione non è giustificata. Magari dopo il decimo capitolo la scrittura diventa meno verbosa e le tematiche diventano più digitalmente pregnanti lasciando perdere la Sindrome delle chiacchiere da Club dell’uncinetto.

Di fatto è questa un’altra delle motivazioni per cui non ho acquistato il romanzo, non amo questo genere di letteratura femminile (o pseudo-tale), intimistica che vuole far passare l’idea che la nostra capacità intellettuale sia completamente determinata dalla chimica. Non fa per me e trovo questi approcci obsoleti, diseducativi quando non pericolosi, non pertinenti con le ncecessità del tempo che viviamo. Anche perché dopo dieci capitoli pesantemente, eroicamente “interpretati” da eroi e anti-eroi del calibro di Dede, Nino, Elsa, Lila e interazioni della sorta che riporto in calce, tutto ciò che mi è passato per la testa all’idea di leggere le restanti 450 pagine è stato l’acronimo KMN: Kill Me Now. E con questo credo di avere detto tutto, fermo restando che de gustibus non est disputandum e magari la letteratura va oltre i miei amati Kafka, Joyce, Woolf, Wolf, Boel, Orwell, Marquez etc… Tutto può essere.

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Alcuni scambi da “Storia  della bambina perduta” che hanno provocato in me la Sindrome KMN. Solo a me?

“Che vuoi”

“Dimmi delle bambine”

“Dormono”

“Lo so, ma come stanno”

“Che t’importa”

“Sono le mie figlie”.

“Le ho lasciate, non vogliono essere più le tue figlie”

“L’hanno detto a te”

“L’hanno detto a mia madre”

“Hai fatto venire Adele?”

“Sì”

“Dille che torno tra qualche giorno”

“No, non tornare….”.

“Allora a chi telefonavi?”

“A un collega qui in albergo”

“A mezzanotte?”

“A mezzanotte”

“Bugiardo”

“È la verità”.

“Con Pietro?”

“Male”

“E le tue figlie?”

“Stanno bene”

“Divorzierai?”

“Sì”

“E voi due vivrete insieme?”

“Sì”

“Dove, in quale città?”….

…. E lo scambio minimalistico continua per altre centinaia di pagine incurante degli alberi abbattuti per contenerlo.

Ma come si fa? Se tutti i grammatici e gli editor fossero scrittori Joyce sarebbe solo un altro cognome irlandese qualunque!


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