di Ivana Vaccaroni. La storia della lingua italiana continua con l'attenzione nei confronti di Alessandro Manzoni, il quale riservò al nostro idioma gran parte del suo lavoro e delle sue fatiche letterarie.Egli invidiava il popolo francese che godeva già da tempo di una nazione unita e di conseguenza di una lingua unitaria, definendo la nostra una lingua parziale, estremamente diversa tra il parlato e lo scritto.
Questo aumentava il divario anche tra l'uso quotidiano e quello letterario, rendendo inutile il fine educativo di quella lingua definita ormai morta e quindi inservibile, nonostante se ne fosse appropriato utilizzandone stili e metri diversi.
Dopo la conversione del 1810 si verificheranno ulteriori cambiamenti importanti, non solo nella vita privata dell'autore, ma anche nella sua produzione artistica. Di tali cambiamenti saranno espressione gli Inni sacri, inizialmente previsti in numero di dodici di cui poi ne pubblicò soltanto cinque, nei quali Manzoni propone una metrica completamente differente da quella adoperata fino a quel momento, mentre il linguaggio risulterà in linea con quello poetico a lui contemporaneo. Nello specifico si nota, ad esempio, che, mentre nella Risurrezione o nella Passione troviamo soltanto l'uso di versi parisillabi, nel Natale o nella Pentecoste è frequente l'uso dei versi sdruccioli. Le critiche coinvolsero in un secondo momento anche la lingua usata, giudicandola maggiormente adatta alla prosa.
Anche il lessico si presenta fitto di latinismi piuttosto inconsueti e si rifà alla tradizione lirica precedente pure nelle rime: superna rima con eterna già in Petrarca, mentre la rima preghi/spieghi ci riporta a Dante.
Le caratteristiche fonomorfologiche e lessicali del linguaggio poetico di Manzoni non mutano nemmeno nelle tragedie: Il conte di Carmagnola e l' Adelchi (1820-1822) esprimono la rottura definitiva con le unità aristoteliche di tempo, di luogo e di azione, senza però il distacco dal linguaggio tragico tradizionale.
Dopo le Tragedie e la Pentecoste Manzoni non scriverà più versi.
Le Osservazioni sulla morale cattolica(1819) costituiscono la sua prima opera in prosa, nella quale egli si allontana dalla nostra tradizione apologetica con l'intenzione di "sottrarre la lingua letteraria[...] all'irrigidimento convenzionale procuratole dalla disciplina grammaticale del Cinquecento, per riportarla alla libertà della fase antica[...] reinserendo cioè nell'uso scritto costrutti anomali di cui era ricca la lingua antica" (Nencioni).
Con la prima stesura del Fermo e Lucia Manzoni si ritrovò a dover supplire la mancanza di una tradizione romanzesca italiana e quindi a cercare di colmarla con un modello linguistico adeguato a descrivere la realtà quotidiana. Egli stesso noterà, in tempi successivi, di essersi servito di una lingua mista di espressioni lombarde, toscane, francesi e latine, senza che nessuna frase fosse in verità espressione di una sola di tali lingue, ma le si avvicinasse "per analogia o per estensione o dall'una o dall'altra di esse". Ecco che quindi egli rifondò la lingua su basi nuove, allontanandosi dalla tradizione aristocratica della letteratura, facendo in modo, così, di trasformare una questione privata in una pubblica e sociale.
Si risolse pertanto a riscrivere il romanzo per renderlo più omogeneo, con l'intento di ottenere una lingua "viva e vera", di chiara impronta toscana. Tale idioma, infatti, costituiva una base comune a tutta Italia.
L'edizione cosiddetta "ventisettana" dei Promessi Sposi sembrò ai conservatori ancora troppo mescolata con vari dialetti, eccessivamente affettata, anche se puristi, classicisti e toscanisti furono tutti d'accordo nel considerarla valida, poiché univa scritto e parlato e non si basava esclusivamente sulla tradizione letteraria tosco-fiorentina.
Per migliorare ancora Manzoni si trasferì a Firenze e, dopo aver studiato modi di dire, variazioni semantiche e usi di singole parole approdò alla concezione definitiva della lingua da usare; elesse pertanto il "fiorentino parlato dai colti" a lingua ufficiale di cui servirsi nella stesura del testo.
L'edizione del 1840/42, la "quarantana" uscì a fascicoli e anche su questa la critica non diede un giudizio unanime. Ci fu chi la apprezzò per l'uso di una lingua non troppo colta, ma nemmeno troppo familiare, e chi invece la riteneva eccessivamente distante dal parlato e lontana dalle origini popolari della stessa, essendo frutto di notevoli rimescolamenti.
Nello stile le due stesure non differivano eccessivamente, mentre per quanto riguarda fonetica, morfosintassi e lessico si notano delle variazioni. Il fiorentino di cui si serve Manzoni non è uniforme e ciò gli permette cambiamenti rispetto al modello originario, con l'ampliamento della parlata fiorentina con espressioni che avevano ormai varcato i confini della Toscana.
Nella lettera a Giacinto Carena del 27 febbraio 1847 l'autore del romanzo si esprime comunque in maniera chiara sul predominio di tale lingua, sostenendone la validità e paragonandola all'importanza del latino per i Romani e del francese per i Francesi. "La spinta fondamentale per la diffusione di un idioma-egli sostiene- rimane l'uso che si fa della stessa". E quindi nega valore determinante sia a meccanicismi linguistici sia alle regole grammaticali che non sono da ritenersi universali.
Per ottenere ciò propose la compilazione di un vocabolario che si basasse, appunto, sull'uso vivo del fiorentino. Tale vocabolario uscì, su interessamento del ministro Broglio, nel 1870, ma non ebbe grande diffusione né impiego.
Non mancarono, in seguito, anche critiche e polemiche nei confronti della posizione di Manzoni: Gino Capponi, ad esempio, uno dei componenti della commissione Broglio, non si mostrò d'accordo sull'attenzione al lessico, che riteneva esagerata; Graziadio Isaia Ascoli, invece, non concordava con la posizione di predominio che il fiorentino dovesse avere sulle altre parlate nazionali e sosteneva la necessità di distinguere scritto e parlato.
Tutto ciò non impedì ai Promessi Sposi non solo di diffondersi rapidamente, ma anche di avere un ruolo determinante nella circolazione del fiorentino nella scuola.
E ancor oggi il romanzo conserva un ruolo centrale nella storia della lingua italiana proprio per l'impiego di vocaboli, espressioni e forme che hanno trovato ampia rispondenza dopo l'Ottocento, arrivando fino a noi forti di una solidità strutturale indiscussa.
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