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Storia di Silvio

Creato il 25 agosto 2011 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

Storia di Silvio

Pasquale Urso (Acquaforte)

Appena la curva dopo la Torre di Mezzo sulla litoranea che porta alla Fraula, dove un tempo sorgevano una balera ed un campeggio estivo, dietro una fila di pini marittimi e poco prima di una caseddha ben tenuta con gli attrezzi ben tenuti e puliti, trovate un vecchio contadino sempre affaccendato e curvo su quel fazzoletto di terra a ricavarne tesori. Forse avrà cent’anni o forse uno in meno, ma poco importa, lo troverete sempre lì chino e ricurvo sulle proprie emozioni e sulla propria fatica e tirarne fuori quello che non diresti mai.

L’ho conosciuto in un giorno di mare verso mezza sera, mentre tornavo solo, con i miei pensieri a casa, e mentre con il sapore della cena quasi in gola mi affrettavo per arrivare in tempo. Ho fermato l’auto dopo la curva spinto da un odore forte di catrame, pensavo di aver bruciato il motore. E dopo aver aperto il cofano e constatato che non fosse fuoriuscito dell’olio, ho scorso dietro un muraglione di pietre a secco che fungeva da barriera stradale e da mirino per la Torre di Mezzo, un uomo,che con un temperino tra le mani ripuliva della verdura e bestemmiava in dialetto qualcosa di incomprensibile a quella distanza. Armeggiavo, ormai da un paio di ore e non venivo certo a capo. All’improvviso,quasi per incanto, la macchina si rimise in moto.

Come va?” “…e che ne so!Sarà il caldo…o il motore. Mah…a capirci qualcosa!!!“.
Quello è il canto della santa” gridò quasi per spaventarmi.
Intuì subito la mia totale insicurezza e quasi burlandomi continuò:”…l’han trovata su questa curva centinaia di anni fa mentre moriva cercando con tutte le forze di far crollare la Torre per ostacolare l’avanzata dei Turchi, per evitare che attraccassero dal mare“.”La sua anima,” continuò “vaga tra le stanze, di quella vecchia dimora dei soldati di vedetta, e si diverte a rendere la vita difficile a quelli che come lei passano senza salutare e senza fermarsi un attimo a sentire il mare.

Aveva perfettamente ragione, non mi ero mai soffermato fra quelle povere pietre e non avevo mai letto qualsiasi cosa sulla leggenda della santa. Ero figlio di quella terra, ero cresciuto in quel pezzo di terra che dal Finibus terrae porta all’antica Lupiae, ma conoscevo poco di tutto quello che apparteneva a quelle antiche pietre. Ero andato via,per cercare il futuro. Emigrato in posti lontani, in posti dove la terra ed il mare appartengono solo all’estate. E non mi ero mai fermato tra quelle rovine, lungo quella discesa di sassi che porta al mare, dove le domeniche sanno di stuoie sotto gli alberi della pineta a sonnecchiare. E non avevo mai letto qualsiasi cosa sulla leggenda della santa.

Guardi che non è una leggenda -mi disse,quasi leggendomi tra i pensieri- la storia della Santa è una storia vera e mille anni di guai a chi non ci crede. Venga con me -aggiunse- la porto a bere un bicchiere di quello buono sarà sicuramente stanco.

Lo seguii, come un bimbo cammina dietro al padre affascinato e curioso, sino alla caseddha che si intravedeva dalla curva e tirando fuori due sedie impagliate mi fece accomodare di fronte al mare. Era ormai l’imbrunire e quei colori tenui della costa salentina ti entravano nello sguardo senza chiedere il permesso. Erano i colori dell’infanzia intera. Erano i racconti di mio nonno che tornavano alla luce. Era quel profumo di oleandro selvatico che ti entra assatanato nel sangue e ti ruba la frenesia e te la rende come calma assoluta. Erano i giorni che l’ailanto si piega in direzione del vento e crea ripari dalla pioggia. Quello specchio d’acqua ora mi capacitava il cuore,mi rendeva la pace che cercavo da una vita.

Avrei dato tutto in quel momento per quel momento. L’uomo era entrato nella caseddha ed aveva preso qualcosa. Versò in due bicchieri un vino novello nero come il petrolio ma forte e sincero come una bestemmia. E dopo poco ancora salì con i piedi sulla sedia e da una mensola scalcagnata prese un po’ di pane e delle fave fresche. Finirono il vino e le fave che ancora chiacchieravamo, conoscendo poco l’uno dell’altro. Prima di rimettermi in macchina e di salutarci chiesi di poter avere il suo numero di telefono e lo vidi ridere felice mentre mi rispondeva di non aver mai avuto un telefono in tutta la sua vita.

A proposito – dissi – non conosco il suo nome..“.” Mi chiamo Silvio”, mi rispose, quasi vergognandosi. Risi anch’io. E mentre tornavo di filata a casa una canzoncina mi riempiva la testa e ripetevo a squarciagola sapendo di non essere sentito: “MENO MALE CHE SILVIO C’E'!!!!


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