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Storia di un minatore

Creato il 24 febbraio 2016 da Cultura Salentina

24 febbraio 2016 di Redazione

di Lucio Causo

minatore

Finalmente era ritornato dopo vent’anni di forzata lontananza, di lavoro estenuante e di lotta continua con la miseria ed il pericolo. E ritornava con il portafogli ben gonfio di biglietti di banca guadagnati faticosamente, non concedendosi alcun minimo svago, con un’idea fissa nella mente: ritornare alla casa che lo aveva visto nascere e dalla quale era partito con la disperazione nel cuore.

Antonio, pur facendo una vita massacrante nelle miniere di carbone, in Belgio, non aveva potuto raggranellare neppure il danaro per pagarsi il viaggio in Italia e vedere per l’ultima volta la moglie sul letto di morte. Sua figlia, rimasta presso una parente, s’era rifiutata di raggiungerlo in terra straniera ed aveva continuato a serbare freddezza ed indifferenza per il padre lontano, mandandogli saltuariamente un rigo di ringraziamento per il danaro che egli le inviava almeno sei volte l’anno.  Fatta donna, s’era sposata con un giovane contadino, vicino di casa, e doveva vivere piuttosto miseramente, visto che le sue lettere, sempre più insistenti e piagnucolose, chiedevano quattrini e soltanto quattrini.

Bisognava aver vissuto per tanti anni nel buio delle miniere, nell’aria pesante del sottosuolo e col pericolo di morte sempre in agguato, per comprendere la voluttà di riposare e respirare l’alito fresco della marina e della campagna, illuminate dal sole. Antonio aveva poco più di cinquant’anni, i polmoni intatti, il cuore forte, la vista acuta e un buon gruzzolo guadagnato con le sole sue forze. Voleva ricominciare una nuova vita, quella che aveva sempre sognata nei lunghi anni di solitudine e di lotta per le strade del mondo e nelle profondità buie della terra. La sua casa era come l’aveva lasciata. La cucina misera con l’ampio camino che pareva occuparla tutta e il mistero del pozzo stagnante nell’angolo del sottoscala; la camera nuziale con il grande letto dove sua madre l’aveva partorito e il vecchio cassettone, ora tutto tarlato, dove aveva provvisoriamente nascosto il suo gruzzolo. Dopo qualche tempo, quella vita regolare, serena e pacifica non gli andò più. Cominciò ad avvertire un’irrequietezza strana, un disagio intimo, snervante, finora sconosciuto. Alzarsi all’alba, lavorare un poco nell’orto, fare le solite quattro chiacchiere insulse all’osteria del paese, non gli bastò più. Una smania acuta, un’ansia inspiegabile, un bisogno struggente di lavoro, di azione e di moto lo riprese. Doveva fare qualcosa, lavorare, stancarsi, agire, perché continuare in quell’inerzia gli faceva mancare il respiro. Cominciò a lavorare la terra, dissodare, vangare per sfogare la vitalità che gli premeva nel corpo, per colmare gli impeti del sangue che gli turbinavano nelle vene e nel cervello. Ma tutto era inutile. Quell’inspiegabile senso di malessere e di inquietudine cresceva. Si sentiva insoddisfatto, annoiato, bramoso di raggiungere qualcosa di indefinito. Ad aumentare il suo nervosismo, un giorno gli capitò in casa la figlia, seguita dalla schiera dei suoi cinque marmocchi, a piangergli la sua miseria. I ragazzini guardavano il nonno con occhi curiosi e indifferenti. Soltanto uno, il penultimo, dal volto di angioletto birichino, gli aveva fatto battere il cuore quando disse di chiamarsi Antonio, come lui. Dopo aver giocato e scherzato col piccolo, il nonno Antonio si rese conto che gli andava a genio, sincero e schietto com’era. Cosicché, congedando la figlia, le disse che con quei pochi soldi che aveva messo da parte per la vecchiaia non poteva fare miracoli; non poteva darle di più di quanto aveva fatto finora. Poi, guardando il piccolo Antonio, aggiunse: “Vuol dire che mi manderai questo frugolino. A lui, d’ora innanzi, penserò io”. La figlia se ne andò, stringendo nella mano il denaro che le aveva teso il padre, il quale, richiudendo l’uscio, la sentì indifferente e bisognosa solo di danaro. Era sempre stato un solitario, come la vita lo aveva costretto, ma ora c’era Antonio, che con la sua allegria forse avrebbe cambiato qualcosa. Tuttavia l’inquietudine avvertita da più giorni, invece di scemare, cresceva rapidamente, come una pianta selvatica che metteva radici profonde nel suo animo. Sentiva un peso nel cuore, un’oppressione che non gli dava pace. Perciò si sforzava di pensare al piccolo Antonio, alla sua gioia quando, nella casa del nonno, avrebbe trovato i giocattoli preferiti. Quella notte ebbe un incubo: sognò strade piene di sole, miniere buie e tanti giocattoli con Antonio che rideva felice. Si svegliò all’alba, con un’idea fissa, e guardò nell’angolo della stanza dove c’era il vecchio cassettone; per un momento non si orientò, poi il rumore, lieve come un frusciò, lo colpì nuovamente. Si alzò di colpo, preso da un pensiero atroce, corse, aprì il cassettone dove aveva nascosto i denari. Uno, due, tre topi fuggirono spaventati in uno stridio acuto, tra brandelli di carta frantumata, sminuzzata. Egli non si era ancora deciso a farsi un libretto di risparmio ed ecco il risultato. Rimase come paralizzato a fissare lo scempio dei suoi denari, per un attimo si sentì soffocare, si gettò sul letto e pianse disperato. Non sapeva cosa fare, voleva scappare via, correre lontano, senza meta. Poi, piano piano si calmò: un senso di serenità improvvisa gli fluì nel sangue e nel cuore. Sorrise perché ogni inquietudine gli sembrò sfumata; ora si sentiva libero, sereno come mai prima gli era accaduto. Era tornato di nuovo povero, ma in questa povertà aveva ritrovato la vera, la sola felicità: quella che poteva nuovamente venirgli dal lavoro. Non era fatto per poltrire nell’inerzia e la ricchezza gli pesava nel cuore come un macigno: ora lo capiva chiaramente. Antonio doveva lavorare ancora, lavorare per qualcuno che aveva bisogno di lui! Gli rise nel cuore il visetto dolce del suo nipotino che aspettava i suoi doni e il suo amore. Anche se povero, il nonno non avrebbe deluso quell’attesa innocente.

Antonio partì di nuovo dal paese in cerca di lavoro, con energie più fresche e con nuove speranze, ed alla fine trovò la serenità e la pace con sé stesso.

… Ho conosciuto Antonio, il nipote del minatore partito di nuovo per lavorare all’estero. Grazie al nonno è potuto andare a scuola ed abbiamo frequentato insieme le elementari e le medie. Poi ci siamo persi di vista. Verso gli anni sessanta, ho saputo, da uno dei suoi fratelli, che era partito a Torino in cerca di fortuna. Voleva fare l’operaio alla FIAT e di sera studiava per diventare meccanico. Dopo qualche tempo, una sera d’agosto, lo incontrai a Gallipoli, sulla rotonda del Lido San Giovanni. Si godeva le ferie con la moglie e la figlia. Ci salutammo affettuosamente. Mi parlò di Torino, della FIAT e del lavoro che faceva (capo reparto in una officina di macchine agricole) nella bella città del nord. Stava bene ed era contento. Chiesi di suo nonno Antonio e mi rispose che, purtroppo, non c’era più. Era morto a Berna, lontano dal suo paese e dalla sua casa.

L’emigrazione era anche questo!


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