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Naturalmente in fondo è solo musica, e questa è (forse) solo mitologia. Ma che cos'è che ha contribuito a crearla? Una musica che non ha eguali e quando l'ascolti sembra comunque scritta ieri? Certo, quella senza dubbio. Il fascino di una generazione soggiogata, ma anche "risvegliata" dalle esperienze psichedeliche? Probabile che anche questo in qualche modo c'entri. Ma prima d'ogni altra cosa, c'è l'anima del mostro rosa e il suo legame indissolubile con la triste sorte di quel genio arcano di Syd Barrett, mente originaria e originale, tenera ed eccentrica, geniale e gentile, misteriosa e schizofrenica dei primissimi Pink Floyd, il Pazzo Diamante che fu sostituito da David Gilmour (nientemeno) quando l'LSD aveva fatto terra bruciata della sua mente, rendendolo inaffidabile come autore e improponibile come musicista in concerto.
Un rapporto, quello tra Syd e gli altri due amici, Waters e Gilmour, amorevole, ma anche difficile e tormentato, frutto di adorazione, ma anche di egoismi, di aiuto, come pure di prevaricazioni e dipendenza, di sicuro un legame mai davvero risolto, anche a distanza di molti anni dalla separazione, bensì lasciato come "appeso", destinato a ritornare come un'ossessione appiccicosa, come se ci fosse sempre stato qualcosa a tenerli legati insieme, loro tre, Syd, Roger e Dave , a dispetto di tutte le traumatiche divisioni, gli scontri e i dolori che li hanno lacerati nell'arco di quasi un ventennio. E in mezzo a questo album epici, come se la loro musica avesse sempre avuto un unico principio condiviso, un motore primo chiamato Syd.
Di tutto questo e di molto altro ancora parla Michele Mari nel suo Rosso Floyd. Un viaggio - lui la chiama giustamente istruttoria (ma John Grisham, giuro, non c'entra per niente) - alle radici di quella leggenda, per raccontarla e cercare di capirla, sviscerarla e trovare un colpevole, mescolando realtà e finzione, aneddoti e biografie, suggestioni e fantasie, costruita dando voce, uno per volta, cominciando proprio da quei Pink Anderson e Floyd Council che - ciascuno per metà - diedero il nome definitivo alla band, a tutti quelli che a vario titolo nel corso della storia hanno avuto a che fare più o meno direttamente con loro, chiamati dunque a testimoniare il loro punto di vista e il loro rapporto col mito. Dai protagonisti stessi, ai musicisti che hanno suonato con loro, anche una sola volta (e magari hanno perso l'occasione della vita), alle coriste, compresa la Clare Torry, il cui leggendario vocalizzo di The Great Gig in the Sky - il pezzo forse più famoso e riconoscibile di The Dark Side Of The Moon - fu da lei improvvisato ed eseguito in studio per la modica cifra di 30 sterline («È stato bello, Clare, arrivederci e grazie.»), ai tecnici, ai familiari, ai produttori, fino ai registi come Alan Parker che lavorò con loro in The Wall e Stanley Kubrick, che invece con loro non lavorò mai, anche se avrebbe voluto, ma che in qualche modo di vendicò. Con una scrittura forte ed evocativa, Mari scava dentro le vite di quattro uomini per trovarci il baratro e il sublime, la carne e l'infinito, in un libro che un vero floydiano non dovrebbe perdersi, ma anche per chi vuole scoprire uno scrittore che io stesso - confesso - non conoscevo, ma che mi ha lasciato davvero con le spalle al Muro.
La citazione: «Syd è impazzito perché era sempre un passo più avanti, e non essere mai in sintonia con gli altri fa di te un naufrago su uno scoglio, o un astronauta perso nello spazio. Qualsiasi cosa facesse o pensasse era sempre all'avanguardia, sempre: a un certo punto si trovò così in là che intorno a lui non c'era più nulla, e in quel vuoto precipitò.»
Rosso Floyd, di Michele Mari (Einaudi)
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