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Storia di un nostalgico dall’anima parigina.

Da Andrea Venturotti

Il treno si fermò dolcemente alla stazione di arrivo. Nessun ritardo. Nessun rumore atroce di ganasce arrugginite che bloccano le vecchie ruote dei treni nostrani, nessuna calca, nessuna fretta, nessun odore di sudore vecchio. Mi tolsi le cuffiette che fino a quel momento mi avevano fatto compagnia durante le ore mattutine del viaggio. Dentro la mia testa echeggiava sempre e comunque la solita canzone. “La neve se ne frega”. L’ho subito sentita mia sapete?! E il bello è che ho avuto la fortuna e la sfortuna di essere sia la neve, sia il tipo abbastanza incazzato, sotto di essa. Alla fine entrambi se ne fregano di chi gli sta intorno. La neve cade, senza curarsi dei bambini che giocano con lei o dei poveri lavoratori che patiranno un pelo di freddo in più nei polmoni. Mi alzai dalla mia comoda seduta, vidi fuori dal finestrino la gente che sbuffava in modo elegante il gelo di questi giorni che sulla carta sarebbero dovuti essere primaverili. Mi misi il cappotto nero, allacciai il doppiopetto e presi il giornale. Una copia di Charlie Hebdo con uno sfondo celeste… Eeeeeh… Charlie Hebdo… e pensare che tutto era partito da quello! Dire sempre ciò che si pensava, senza censura!
Lo piegai con una faccia affranta, lo misi sotto il braccio e presi le ultime tre cose che erano rimaste sul tavolino del treno. Un cellulare, anche se da li in poi non mi sarebbe servito a nulla, un moleskine rilegato in pelle, con una carta di imbarco in allegato e una penna bic. Scesi dal treno e lessi la scritta “Gare du Nord – Voie 8″. Un sorriso scese sulle mie labbra. Da quanto non sorridevo alla vista di qualcosa di cosi semplice! Ripercorsi il viaggio fatto con gli amici più cari, solo con delle tempistiche totalmente differenti. I miei passi erano lenti, ma non pesanti. Ero leggero e la mia testa, assieme coi miei occhi, non stavano ne sulle nuvole, ne sottoterra. Stavano li…
Presi la metropolitana. La mia cara metropolitana parigina. Storia di un nostalgico dall’anima parigina.

Arrivai alla fermata di Jourais, la 8, tanto per cambiare. Salutai con gli occhi l’insegna del mio ostello protagonista del primo viaggio nella belle ville. Andai a piedi lungo un canale e raggiunsi in circa dieci minuti la mia boulangerie preferita. Dieci minuti pensai?! Con gli amici ci arrivavo in tre minuti scarsi. Aaah… quanto si correva. Presi un dolce che mi porterò per sempre nel cuore e nella mente. Un affarino in tre consistenze al cioccolato e noci caramellate. Una gioia per lo stomaco. Uscii fuori dalla boulangerie e mi cercai una panchina libera proprio di fronte a quel canale di prima. Non mi importava se faceva freddo. La neve. A Paris. Ad aprile. Da non crederci!
Presi lo scontrino e lo appiccicai sulla prima pagina dedicata ai locali del mio moleskine parigino. A fianco, tirai uno smile con una lingua a mò di acquolina in bocca. Era la prima volta che ci scrivevo sopra. Le pagine color avorio non erano state intaccate prima di allora…
Intanto che assaporavo l’opera d’arte fatta a dolce, nella mia testa, svolazzavano solo due parole: “Je suis”.
Volevo e dovevo farmi conoscere. Cominciai a girovagare per i monumenti, evitando gli italiani in vacanza perchè sapevo che si, loro, sarebbero ripartiti e tornati da dove erano venuti.

Storia di un nostalgico dall’anima parigina.

Cercai i parigini e le parigine, gli studenti e le studentesse che frequentavano dei localini molto di classe vicino a canal San Martin. Mi fermai lungo i bordi delle chiuse dove stavano attraccati i bateau mouche, facevo schizzi sul mio moleskine raffiguranti tutto ciò che mi piaceva. Ricopiavo il profilo della bella ragazza con il nasino all’insù, scopiazzavo il gotico a Notre Dame e andavo in cerca del barocco. Appiccicavo biglietti da visita, scontrini, bigliettini dei punti d’interesse e i volantini degli eventi sparsi per la città. Giravo, camminavo, ammiravo e gustavo ogni momento della giornata. Avete mai pensato di trovarvi in un loop temporale? Magari quando vi mettete a leggere due capitoli di un libro e vi ritrovate senza rendervi minimamente conto del passare incessante del tempo? Io ero a Parigi da chissà quanto… La mia barba era cresciuta ed era stata tagliata almeno un paio di volte. Non ricordo di aver dormito o di aver chiuso gli occhi. So solo che la neve non c’era più da un pezzo e che avevo svestito il mio cappotto a doppio petto da diverso tempo.
Storia di un nostalgico dall’anima parigina.

Le persone ormai mi guardavano, mi sorridevano e mi salutavano. Avevo un sorriso stampato sulla faccia. Non avevo bisogno di fingere. Era tutto cosi perfettamente irreale. Finchè un giorno… Tornò il freddo. Mi ritrovai in un batter d’occhio nell’unico posto in cui non ero stato nella mia prima avventura. Ero sopra l’Arco di Trionfo e avevo davanti a me gli Champs-Élysées. Nevicava. Ancora una volta, nevicava. Avevo di nuovo addosso il mio cappotto nero. In una tasca, un anello destinato, forse, ad una ragazza che ancora non conoscevo. Era chiaramente un anello da donna. Forse non me ne resi conto, ma quell’anello finì nella mia tasca da solo. Non lo avevo comprato, non lo avevo trovato. Era li e basta. Nell’altra tasca, il moleskine che aveva raddoppiato le proprie dimensioni a causa dell’enorme quantità di allegati all’interno di esso. Quale delle due tasche avesse il contenuto più prezioso non mi è dato saperlo. So solo che il Moleskine adesso pesava di esperienza e convinzioni. L’anello, invece, era leggero e senza pretese. Stava li, immobile. “Nessun tipo di sforzo, non fa neanche una piega” dice la nostra canzone. La neve se frega. Continua a riprodursi nella mia testa. Il mio corpo era freddo e il cielo della città si era oscurato, forse per la prima volta in tutto questo tempo. Unico compagno a riscaldarmi, un bicchierone di caffè americano, nemmeno lontanamente buono come il caffè espresso di casa nostra, con scritto sopra un nome sbiadito. So che era una scrittura da donna. Era palese. Cosa strana? Non avevo preso un caffè. Non ero mai entrato in uno starbucks. Eppure avevo quel bicchiere fra le mani e quel gusto caldo e amaro in bocca.
Mi resi conto di essere nell’arrondissement 8.
Otto. Otto. Otto.
Questo numero mi ricorda qualcosa.
Ah! Ma certo! E’ da dove tutto è iniziato!
Charlie Hebdo?!
Nono! Più avanti! premi avanti!!
Il numero del binario del treno dal quale sono arrivato.
Treno sul quale non ricordo di essere salito.
Il numero otto è l’unico che ha un inizio che è lo stesso punto della fine. Tutto si ricongiunge. Parte dal centro, va verso il basso, sale verso l’alto per poi ricadere da dove era partito per poi ricominciare, ancora una volta, l’infinito viaggio dentro la testa di ogni essere umano. Otto come la vita. Otto come i sogni. Otto come me.
Alzai la testa, pieno di nostalgia nel cuore e per l’ultima volta, un fiocco mi si posò sulla bocca.
La testa, per qualche strano motivo, mi si era fatta più pesante e l’unica frase che ricordo è:
E nevica ancora da togliere il fiato… 

Storia di un nostalgico dall’anima parigina.


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