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Storia di un otto volante impazzito

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

Questa, cari lettori, è la storia senza senso di Ottone, e di come, un giorno, egli decise di impazzire.

Quella che andrò a raccontare, è una storia senza tempo, poiché la data in cui avvennero i fatti è stata lavata via dal sudore della fronte del nostro protagonista, il quale, per anni, si è spaccato la schiena lavorando un brullo pezzo di terra, in una remota località arsa dal sole, nell’estremo meridione della penisola italica.

Ora, stimati lettori, leggendo queste parole disordinate, capirete che la vicenda accaduta ad Ottone, altro non è che una prassi nella storia del genere umano, poiché, sin da quando fece la propria comparsa su questa terra, l’uomo, ebbe in dono tanto la creatività di narrare storie di fate e mondi incantati, o di raccontare come anche un somaro – e uso tale parola come sostantivo, volto ad indicare l’animale, non come metafora dell’ottusità umana! – diviene re, quanto la stoltezza di credere a queste folli storie, al punto da prenderle tanto sul serio da farle diventare realtà.

Ottone Volante era un povero contadino dimenticato dal Cielo e dagli uomini. La sua misera casa era circondata da un piccolo appezzamento di terra, talmente arido che nemmeno Cerere, la dea romana dell’agricoltura, in persona avrebbe potuto ricavarci qualcosa.

Ottone, era un uomo brutto, non particolarmente alto, tozzo, potremmo dire. Il viso, perennemente solcato da un’espressione indifferente, che avrebbe portato chiunque a dimenticar quel volto un attimo dopo averlo incrociato, era circondato da capelli neri come il carbone e da una barba ispida. Il vanto del nostro protagonista, però, era la forza erculea che lo aiutava nei pesanti e difficili lavori agrari. Le mani nodose erano piene di calli, e le braccia erano possenti come le zampe di un toro. In sostanza, Ottone, se non fosse stato per i fatti che andrò a raccontare, avrebbe benissimo potuto fare la propria comparsa su questa terra senza lasciare alcuna traccia.

La piccola casa del nostro contadino era lontana un paio di chilometri dal villaggio più vicino, di modo che il nostro eroe veniva indicato, dagli abitanti dei paesi limitrofi, come Otto l’eremita.

Le stagioni si susseguivano ed Ottone continuava la sua vuota vita come un automa, senza saper fare niente di diverso. Non si rammaricava del fatto di non aver preso moglie, una donna, infatti, avrebbe potuto rompere quel millenario silenzio che l’aveva portato a non ricordare più che voce avesse. Non aveva conosciuto né religione, né politica, né altre materie che non fossero quella maledetta terra rossa che, testardamente, ogni giorno arava, o l’allevamento di quei quattro polli che, una volta ingrassati, finivano arrosto.

Prima di lui anche suo padre, e il padre di suo padre, e così via fino all’inizio dei tempi, avevano provato a seminare in quel terreno senza vita. Lui sarebbe stato l’ultimo. Non avrebbe tramandato quella misera e vana tradizione ai suoi eredi. Era vissuto solo e sarebbe morto solo. Non avrebbe mai conosciuto il sapore di una donna o il rumore del mare. Sarebbe morto stroncato dal tempo e dalla fatica senza emettere alcun suono.

Ogni tanto, dal paese più vicino, partivano schiere di ragazzini cenciosi che, per superare una qualche prova di coraggio, provavano ad avvicinarsi quanto più possibile alla casa dell’orco solitario. Lui li lasciava fare, la paura avrebbe impedito loro di avvicinarsi più del previsto. Nessuno nel villaggio aveva a cuore le vicende di Ottone, ma alcune mamme, sconfitte dai capricci dei propri pargoli, riuscivano ad ottenere il silenzio in casa, minacciando l’arrivo di Otto l’eremita, richiamato dai pianti dei bambini.

Fu forse per uno strano scherzo del destino o a causa di una maligna scommessa degli dei – questo, a noi, non è dato saperlo – ma fatto sta che le terribili profezie delle madri esasperate divennero realtà. O così, almeno, sembrò.

La città più grossa delle vicinanze, all’epoca dei fatti, si trovava ad alcuni chilometri di distanza dai luoghi dove si svolge la nostra storia, ma pochi chilometri equivalevano a migliaia di leghe, se si devono percorrere a piedi scalzi, e solo pochi erano i fortunati che potevano dire di essersi recati in città.

In quei giorni, nel paese più grande delle vicinanze, si trovò a passare un luna park itinerante, il cui impresario decise di fermarsi lì per alcuni giorni, sfruttando una festa in onore d’un qualche santo, per fare i propri guadagni.

L’ingresso a questo parco di divertimenti era consentito a chiunque avesse pagato il biglietto all’ingresso. Il prezzo di un biglietto, un soldo e qualche centesimo, aveva frenato i più. La maggior parte dei contadini, infatti, non aveva mai sentito parlare di questi “parchi lunari”, né sapeva cosa ci avrebbe potuto trovare. Le richieste dei bambini morivano, quindi, nella parsimonia dei genitori.

Fu così che solo alcuni privilegiati, e qualche furbetto, riuscirono ad entrare nel parco divertimenti.

La compagnia avrebbe levato le tende al più presto, dato i magri ricavi, anche se non fosse successo quel che, disgraziatamente, accadde. Nel parco era presente un’attrazione chiamata Ottovolante, simile ad una ferrovia, ma posta a diversi metri d’altezza dal suolo e caratterizzata dal tracciato irregolare, fatto di salite e discese. Durante un giro, sfortunatamente, un carrello che ospitava dei bambini, deragliò e la caduta da quella altezza fu fatale ai piccoli.

L’impresario chiuse subito i battenti e la compagnia smontò il luna park durante la notte, per partire, verso una nuova meta, alle prime luci dell’alba.

Quando l’indomani iniziò a circolare la notizia della morte dei quattro figli di una famiglia borghese di un paese delle vicinanze, tutti vollero saperne di più. Nel paese delle vittime un giovanotto pieno di passione ma scarso in grammatica, pubblicava, a volte, un giornaletto sui fatti locali. Quel dì una copia di questo giornale arrivò anche nel paese più vicino alla casa di Ottone. Tutta la popolazione presto si riunì all’uscita della chiesa, in attesa del prete, essendo questi l’unico capace di leggere e scrivere.

L’anziano prelato quasi svenne quando lesse il titolo dell’unico articolo, dell’unica pagina di quel giornale. In nero, a stampatello maiuscolo, c’era nitidamente scritto: “Otto Volante impazzito uccide quattro bambini”.

Qui, è necessario aprire una piccola parentesi. Il giovane aspirante giornalista non sapeva, ahimè, che il nome dell’attrazione – che si scrive tutto attaccato, Ottovolante, e non come era scritto nel titolo – prende il nome da un impresario tedesco di nome Otto, appunto, che per primo lo portò in Italia. “Volante”, invece, è l’aggettivo che meglio si accosta a descrivere tale attrazione, i cui carrelli sfrecciano velocemente sulle rotaie, quasi volassero.

I pensieri di tutti si unirono in un’unica voce che si levò dalla folla: “Otto l’eremita ha ucciso quei bambini!”.

Disgrazia volle che, come detto, il nome del povero contadino fosse proprio Ottone, detto Otto, Volante. In un solo attimo la folla attonita si era trasformata in un gruppo di assassini assetati di giustizia che, torce e forconi in mano, si dirigeva verso la casa del nostro sventurato protagonista.

Otto, dal canto suo, in quegli attimi convulsi era quasi in lacrime dalla gioia, poiché dopo secoli di lotta, finalmente un germoglio era cresciuto in quell’arido terreno. Quando, d’un tratto, vide arrivare la folla inferocita, non se ne curò più di tanto, e proseguì il suo lavoro. All’improvviso, però, venne colpito da un sasso scagliato da quella moltitudine di persone, mossa da un solo piccolo cervello. Notando che, effettivamente, era lui l’oggetto della rabbia popolare, preso dalla paura si rifugiò dentro casa.

Quella stolta marea umana circondò in un attimo le povere quattro mura dell’abitazione di Ottone, il quale, stordito dai tremori, si era rifugiato sotto il tavolo. Urla e insulti sbattevano contro i muri della misera casetta, ma Ottone riusciva a capire che erano minacce di morte.

D’un tratto una donna urlò: “Se ha fatto questo ai quei poveri bambini, chi ci dice che non può fare di peggio ai nostri?”

Il povero contadino, intontito dalla paura, avrebbe voluto replicare qualcosa, chiedere spiegazioni, ma era talmente tanto tempo che non apriva bocca per parlare che, ormai, si era dimenticato tutte le poche parole che conosceva.

L’assediò durò quasi un’ora. Gli uomini, da fuori, gli intimavano di uscire e di consegnarsi loro volontariamente, risparmiandogli così l’umiliazione di essere ucciso da vigliacco. La scorza forzuta del silenzioso contadino non l’avrebbe certo protetto dagli attacchi di quei pazzi. Si sarebbe piegato sotto i loro colpi così come un bocciolo si piega al vento e alla grandine.

Alla fine, quando tutti erano pronti a fare irruzione in casa, arrivò l’anziano prete. Questi, ansimando per lo sforzo, aveva camminato quanto più in fretta le sue stanche gambe gli avevano consentito, intimò alla folla di posare i forconi, dal momento che c’era stato un equivoco.

Dopo la partenza della folla assassina, infatti, il vecchio prelato aveva continuato a leggere l’articolo, scoprendo, così, che l’Otto Volante citato, altro non era che il nome di un’attrazione del parco di divertimento.

Appreso l’errore, la folla sanguinaria placò i propri bollenti spiriti, e, dopo aver rivolto le scuse al mite contadino, ancora in lacrime sotto il tavolo, riprese la via di casa.

Ottone, tra i singhiozzi, si era reso conto che i suoi aguzzini avevano smesso di torturarlo e minacciarlo, ma non aveva sentito né la spiegazione del prete, né le scuse della folla. Pian piano si avvicinò alla finestra e sbirciò cautamente. Quando si accorse che non c’era più nessuno a circondare la sua casa, uscì fuori e si guardò intorno. Corse a vedere il bocciolo che, dopo secoli di dura lotta tra l’uomo e il terreno, era spuntato quella mattina. La folla inferocita, nella demenza della rabbia, non si era accorta di quel bocciolo, che ora giaceva estirpato, dopo essere stato brutalmente calpestato.

La visione dell’orrenda fine della sua unica creatura fu la goccia che fece traboccare il vaso. E stavolta Otto Volante impazzì sul serio. Entrò in casa e chiuse tutti i suoi miseri averi in una valigia di cartone. Presa in mano la valigia, uscì dall’abitazione per non rientrarvi mai più. Diede un ultimo sguardo al suo bocciolo esanime, quindi si incamminò verso l’orizzonte.

C’è chi dice di aver visto Otto Volante in città. Sembra che, finalmente, abbia trovato una moglie che ha dato vita a due bambini. Pare, inoltre, che abbia fatto fortuna come commerciante, o come falsario o come politico. Il finale cambia sempre a seconda di chi racconta questa storia.

La morale, miei cari lettori, è che talvolta la stoltezza umana può credere talmente tanto ad una storia inventata da farla diventare vera.

Prova ne sia la storia di un Otto Volante impazzito.



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