Era il 1896 e Spyridon Louis, reduce dal servizio militare, era
tornato a casa a Maroussi, un piccolo borgo fuori da Atene, borgo che oggi è stato inglobato nel nord della città da quella babele di stradine nate come il radicchio spontaneo, senza un ordine né
apparente né urbanistico. Tutte in un modo o in un altro sarebbero poi convogliate nella grande arteria che portava al centro e che invece, in direzione opposta, si perde nelle colline che di lì
a pochi chilometri permettono di rivolgere lo sguardo al magnifico e misterioso dedalo di montagne e gole dell’Epiro. Una specie di strada statale, di concezione ed epoca romana, così come molte
altre che si dipartono dalla città. Spyridon era tornato, seppur per breve tempo, perché le incombenti inquiteudini con le terre balcaniche, avrebbero presto richiesto ancora il suo servizio in
divisa, a dare una mano in famiglia. Suo padre era un portatore di acqua. A quel tempo Atene era sprovvista di un acquedotto vero e proprio e quasi
tutti gli isolati che si erano ammassati intorno al nucleo centrale venivano pertanto approvvigionati a mano da chi,come lui, quasi per tradizione familiare, faceva avanti e dietro dalla
periferia trasportando pesanti otri con il presumibile aiuto di un somarello. E tutto sarebbe passato via nell’indifferenza di una vita in definitiva tranquilla ma modesta, ben fuori dai clamori
dell’alta società e ancor più del clamore internazionale.

Fu in quell’inverno che venne deciso, a seguito dell’idea di un francese, un certo Pierre De Coubertin, di riproporre ad Atene i giochi olimpici, quelli che nell’antichità, presso la città di Olimpia venivano celebrati in onore degli dei, ogni quattro anni, per la durata di una settimana, periodo durante il quale ogni ostilità o guerra in atto fra le città-stato veniva sospesa. L’idea stavolta era di riproporre tale manifestazione coinvolgendo il maggior numero possibile di nazioni, volendo farne un appuntamento che avesse rilevanza internazionale. Ciascun paese avrebbe inviato i propri migliori atleti alla condizione che non fossero professionisti, non dovevano infatti essere dediti a quello sport per mestiere, ma solo per amore dello stesso. E numerose furono le iscrizioni rifiutate, tra le quali anche quella di Carlo Airoldi, un podista italiano, non accettato proprio perché giudicato dalla severa commissione un professionista. Per la Grecia era un’occasione eccezionale, un evento che avrebbe dato grande lustro al paese e, pertanto, cercò di prepararsi non solo con la sistemazione degli impianti sportivi ma, soprattutto, allestendo una squadra di atleti che avessero tutte le carte in regola per primeggiare. Ben lo sapeva Re Giorgio I che, inoltre aveva di che guadagnarsi ancora il rispetto come monarca, visto il suo arrivo imposto e non voluto, nel mentre stava apprestandosi a seguire la carriera militare nella flotta danese, come rampollo della casata Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glücksburg. Le specialità previste erano nove: Atletica leggera, Ciclismo, Ginnastica, Lotta, Nuoto, Scherma, Sollevamento pesi, Tennis, Tiro a segno, per un totale di 43 gare ma, sopra a tutte, una era considerata in Grecia la gara per eccellenza, gara per la cui preparazione fu applicato ogni sforzo possibile: la maratona. Era una gara piena di simboli per questo paese da quando, leggenda vuole, che il soldato Filippide, al seguito del generale Milziade, dopo aver vinto la battaglia di Maratona contro gli invasori persiani, nel 490 c. C., venisse inviato dallo stesso generale ad Atene a dare la notizia che avrebbe scongiurato l’immediata evacuazione e caduta della città. Filippide compì il tragitto interamente di corsa ed arrivò stremato all’Acropoli, gridando “Nenikékamen!!!, abbiamo vinto!”, dopodichè sfinitò morì.

La gara invero fu studiata nei minimi particolari da un amico del De Coubertin, Michel Jules Alfred Bréal, filologo francese e profondo studioso delle lingue e dei miti antichi tanto che da molti viene considerato come il padre della semantica. Ma, a parte queste precisazioni, messe lì giusto per far comprendere il contesto che vide di fatto la Grecia usufruire di una occasione che ben poco per il momento aveva di propriamente ellenico se non il ripristinarsi di una leggenda, torniamo al nostro Spyridon, per gli amici e per il mondo intero poi, più semplicemente Spyros. Fu nella fattispecie un colonnello che aveva avuto modo di verificarne le qualità durante il servizio militare che si ricordò di lui e lo mandò a chiamare per partecipare alle durissime selezioni che avrebbero decretato i partecipanti. Due prove furono eseguite e Spyros in realtà riuscì solo per un soffio, alla seconda prova, a rientrare nei tempi massimi previsti. Il clamore intanto cresceva anche perché la maratona si sarebbe disputata proprio ricalcando le gesta di Filippide: sarebbe partita da Maratona dove una colonna commemorativa ne ricordava il gesto e sarebbe terminata nello storico Stadio Panathinaiko, qui meglio conosciuto come il “Kallimarmaron”, ovvero lo “stadio di marmo”, unico al mondo nel suo genere, dove anticamente si disputavano i “giochi Panatinaici” in onore della dea Atena. Per l’occasione era stato restaurato grazie all’intervento di un benefattore, greco stavolta: Georgios Averof, che era stato coinvolto dall’erede al trono, viste le asfittiche casse del regno che non permettevano certo un simile intervento.



La premiazione fu un momento di quelli in cui ogni nazione si raccoglie intorno al proprio eroe. Spyros ne era divenuto l’emblema, colui che aveva perpetuato dopo secoli bui le glorie
dell’antichità, colui che aveva riconfermato al mondo che i giochi olimpici erano greci. Così racconterà, ricordando quel giorno: "Quell'ora fu qualcosa di incredibile e ancora oggi mi sembra
un sogno... da tutte le parti mi lanciavano fiori e ramoscelli d'ulivo. Tutti urlavano il mio nome e lanciavano in aria i cappelli...". Tornò a Maroussi,
circondato dai compaesani sul carretto trainato da un cavallo che il re gli fece come dono, con il quale, a breve, avrebbe continuato il suo lavoro. Oltre al regalo del re, come premio ufficiale
ricevette la corona d’allora, tipica delle antiche premiazioni ed una coppa in argento fatta appositamente realizzare dall’ideatore della gara, Bréal. I doni sia dei suoi compaesani che di
comunità greche residenti all’estero pare siano stati innumerevoli ma dove finisca la verità ed inizi il lungo fiume degli aneddoti e delle leggende non è dato saperlo. Così come è difficile oggi
sapere nei particolari come andò in realtà la corsa, forse come ce la siamo immaginata o forse no. Spyros comunque divenne e restò per tutta la sua
vita ed oggi ancora, simbolo dello spirito greco. 

Il vecchio Spyros, forse abituato a ben altro tenore di vita, a ben altro spirito di sacrificio, a ben altri valori, quando il poco diventava spesso assai o troppo, tanto che vi era anche lo spazio per la solidarietà, non so con che animo assisterà a tutto questo e forse, in fondo sarà là a domandarsi se sia o no valsa la pena di far quella sudata. Certo, da eletto a simbolo si sentirà oggi un condannato, a seguir la stessa sorte, non più salvatore dell’orgoglio di una nazione ma testimone della sua disfatta, costretto a vendere l’orgoglio più vero per tirare avanti, come se in fondo alla maratona stavolta, al contrario di Filippide, avesse annunciato l’avvenuta conquista del paese.




