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Quando una cosa ti mette in difficoltà, la eviti; ma quando è il tuo sogno a farlo, come fare a sfuggirgli? Non puoi, perché non vuoi. Milano era questo per me. Un sogno.
Un sogno che sembrava realizzato quando scesi dal treno e il mio piede toccò quel suolo agognato. Tutto sembrava perfetto e chiaro come una sfera di cristallo; ma i miei occhi, ancora abbagliati dal desiderio raggiunto, trascuravano centinaia di graffi e scheggiature.
“Non è sempre facile ottenere ciò che si vuole” pensai. “Ci vuole pazienza e sacrificio” conclusi ricalcando le parole di mio nonno; e cosa avrebbe detto, nel vedermi lì, ad un passo dalla meta, mentre faticavo a non mollare? Se fosse stato ancora vivo, gliel’avrei chiesto.
Milano sembrava mettermi in difficoltà. Ma più la guardavo e più l’amavo… e più l’amavo e più volevo restare lì. Immaginai di guardarla dall’alto. Da uno dei suoi palazzi più alti. Di perdermi con lo sguardo nell’orizzonte ad osservare i suoi dettagli più belli. Sorridere di quanta coraggiosa testardia ci sia nel voler costruire e arrivare al cielo prima degli altri; Milano è così, pullula di vita e di voglia di fare. Sognai di volare tra piazza Duomo e la Galleria, come farebbe un piccone; arrivare al Castello e guardare il parco, unico sollievo per gli occhi con metri e metri privi di barriere architettoniche; e poi fermarmi, bloccato dalla celebre nebbia che spesso circonda la città, limitando la mia fantasia.
Milano, così grande da perdersi anche nell’illusione.
“Ci sarà un posto anche per me?”
Smisi di immaginare ma continuavo ad osservare la città. Non dall’alto, ma dal basso. Sotto terra, davanti ad una grossa cartina appesa al muro.
La metro mi portò rapidamente alla prossima casa. Ogni volta speravo che fosse stata quella giusta, in modo da porre fine alle mie faticose ricerche.
Mi addentrai con forzata disinvoltura nel parcheggio condominiale di un palazzo. Il sole era quasi tramontato e contavo sulle luci dei lampioni per orientarmi. Il posto prometteva bene. L’edificio aveva un bell’aspetto. Aveva una facciata arancione alternata da balconcini bianchi su cui bazzicavano piccole piantine. Trovai un campanello e cercai il nome scritto sul mio biglietto. Non servì suonare, fu lui ad aprirmi. Un uomo stempiato, dai modi modesti ma intensionalmente gentili. Mi fece segno di salire e mi precedette fino a casa sua, al primo piano.
Entrai… e gli occhi mi dissero all’istante quello che ancora non avevo pensato.
La casa era giusta per una persona, ma ce ne vivevano due, ed io ero l’altra. Uno stretto corridoio collegava tutte le stanze. Si soffocava a stare in quell’angusto spazio. Il signore, allargando una mano, mi mostrò la cucina. Blu. Non avevo mai visto una cucina blu e questo m’incuriosiva. Ma il disordine, i piatti sporchi e la polvere cancellarono tutto.
“Vieni, di qua c’è la tua camera…” mi disse, passando tra me e il muro. “E’ un po’ in disordine, devo portar via alcune cose…”
Mi affacciai nella stanza. Non entrai perché era fisicamente difficoltoso. Armadio e letto occupavano la maggior parte dello spazio. Una piccola finestra cercava di dare un po’ d’aria ai muri spenti. Per terra erano disseminate innumerevoli cianfrusaglie, al limite di ogni soglia di disordine tollerabile.
Torturai gli occhi con quella visione pochi minuti, poi mi girai verso l’omino stempiato e mi chiesi se quel disastro fosse opera sua o…
“…e in fondo c’è la camera del tuo coinquilino” disse indicando una porta aperta alla fine del corridoio.
La guardai da lontano. Non mi avvicinai. Non volli sapere chi vivesse lì. L’unica cosa che volevo era andarmene da quel luogo e non chiedermi come facesse qualcuno a chiamarla casa.
L’omino sembrò capire tutto dal mio sguardo e non si dilungò nei dettagli. Mi disse l’essenziale e mi accompagnò alla porta. Una volta fuori, fui per un attimo sollevato e la mente diede conferma alla prima impressione degli occhi: “Un altro buco nell’acqua”.
Presi il foglietto e lo guardai. Era pieno di nomi cancellati, eccetto uno. Cancellai anche quello e osservai lo spazio bianco, sperando che qualche nome comparisse magicamente tra le righe.
Intanto… il telefono squillò.