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Più camminavo e più mi avvicinavo all’appartamento da visitare; più camminavo, e più mi accorgevo di quanto ogni mio passo fosse solitario. Era angosciante il rumore delle suole delle scarpe sull’asfalto. In quel momento compresi di esser solo. Non avevo amici, conoscenti, o quantomeno qualcuno con cui scambiare due chiacchiere nel raggio di chilometri. Sentivo crescere in me il senso di abbandono. Ero partito alla ricerca di me stesso. Questo viaggio, questa città, questa casa, tutto faceva parte di una sfera in cui entravo. Una sfera di vetro, sul cui rifesso, vedevo distorte le storie che abbandonavo: amici di strada, corse in macchine e nottate affacciati alle stelle. Ormai era il passato… e di tutto ciò, solo un riflesso distante di molti ricordi. E la sfera in cui stavo ora? Non scorgevo un gran che, vuoto assoluto. Solo una bella e incantevole città che faceva da scenografia a un palco vuoto. Ma quand’è che gli attori sarebbero entrati?
Bussai al 10, dopo aver controllato ogni nome sul citofono e fugato ogni dubbio. Sentii la voce squillante di una donna che mi chiese chi fossi. Dal tono capii che già sapeva che qualcuno sarebbe arrivato, quindi quella domanda era inutile.
- Sono Ciro… il ragazzo che… –
- Si! Sali! Scala A quinto piano. –
- Ok, salgo… – sussurrai per chiudere la conversazione ormai già chiusa.
Spinsi il pesante portone a vetri e fui all’interno dell’atrio. Un tappeto verde smeraldo m’indicava l’unica via percorribile. C’erano tre gradini davanti a me. Larghi e lunghi. Un tipo di scala che spesso sentii come metaforico esempio di funzioni non decrescenti nei corsi di matematica. C’è chi dice che la matematica non servirà mai, e invece, eccola lì… proprio sotto i miei piedi.
Arrivai a un bivio. A sinistra una porta in legno con una lunga vetrata; a destra, un altro corridoio con in fondo la stessa identica porta. Ciò che differenziava le due porte era una lettera. A e B. Ricordai ciò che aveva sputato il citofono poco prima e girai a sinistra.
Un modesto ascensore cercò di portarmi al quinto piano. Pensai che gli scricchiolii di quell’aggeggio sarebbero stati inclusi nel mio futuro affitto. In realtà tutto quello su cui stavo camminando lo sarebbe stato. Persino quel bottone numero 5 che per chissà quante volte avrei premuto; o la scala all’ingresso coi gradini larghi o la lettera A della porta in legno.
Mi accorsi di star andando troppo oltre. Forse il mio istinto stava già affezionandosi a quella casa e iniziava a fertilizzare il terreno per nuovi ricordi. Dovevo smetterla di pensare.
Aprii le due ante del vecchio ascensore e come un buffo gambero umano, uscii in retromarcia per chiuderle entrambe. Sull’uscio della porta semiaperta mi aspettava questa simpatica signora. Ancora non ero riuscito a darle una collocazione geografica dal suo accento, ma dal modo di vestire, dal taglio degli occhi e dal colore della tinta dei capelli, era chiaramente del nord. La salutai con una stretta di mano e con un “salve” non troppo serioso. Lei iniziò a parlare e si vedeva che il mestiere lo conosceva da un po’. Non ero di certo il primo sconosciuto che superava quell’uscio. Chissà quanti ragazzi sprovveduti e inesperti erano alla ricerca di un alloggio in questo momento. Milano sembrava pullulasse di anime vaganti in cerca di un posto dove stare. Ed io ero tra quelle a contendermi un posto con gli altri. Era una guerra ingiusta che mi ero stufato di perdere. Non avevo più tempo…
- Vieni Ciro, di qua c’è la cucina… -