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Storia vera: come un fidentino e un caso giudiziario furono alle origini della mafia

Creato il 09 novembre 2015 da Bernardrieux @pierrebarilli1
STORIA VERA: COME UN FIDENTINO E UN CASO GIUDIZIARIO FURONO  ALLE ORIGINI DELLA MAFIAIl 18 febbraio 1861 a Torino veniva proclamato il Regno d’Italia; il 14 marzo si inaugurava la prima legislatura del nuovo Stato. L’unità geografica d’Italia era compiuta, quella sociale, economica e civile è ancora da venire! La politica piemontese aveva la necessità di sancire rapidamente l’avvenuta unità d’Italia sotto lo stemma dei Savoia.
Vittorio Emanuele II, il re “galantuomo”, venne dichiarato “Padre della Patria” e, ancora oggi, sorride dall’alto del suo cavallo dinnanzi all’Altare della Patria.
Il “Giornale Officiale di Sicilia”, il 7 giugno del 1860 usciva con una testata sormontata dallo stemma sabaudo che annunziava le parole del “Consiglio civico di Palermo”: «L’Unità dell'Italia è nel cuore di tutti i palermitani».
Profetiche parole, colme di patriottardo amore per la “conquistata” liberazione dalla tirannide borbonica.
Giammai i siciliani pensarono in quel momento che l’unità d’Italia si andava profilando quale un disastro senza precedenti per la Sicilia.
La nuova classe politica, in prevalenza piemontese, fortemente corrotta, era priva di esperienza amministrativa e ignorava totalmente i problemi del meridione. Ad aggravare la situazione in Sicilia vennero esportate leggi da Torino a Palermo senza considerare il fatto che talune di tali leggi non potevano essere comprese né accettate in Sicilia, in un contesto di condizioni così diverse e di tradizioni così differenti.
I piemontesi considerarono la Sicilia non una parte integrata del nuovo Regno, ma una colonia conquistata con la forza delle armi e dominata con la violenza. Il quotidiano siciliano, ebbe a scrivere: «Lo Stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferroe fuoco l’Italia meridionale e le isole, crocifiggendo, squartando, seppellendo vivi i contadini poveri che gli scrittori salariati tentarono di infamare con il marchio di briganti…».
A far precipitare le cose, era il 17 febbraio 1861, venne pubblicato il decreto legge sulla leva militare obbligatoria.
La Sicilia godeva del privilegio millenario della esenzione dagli obblighi di leva. La legge sull’obbligo di leva, frutto di intolleranza e miopia politica, venne a cadere come una mannaia sul capo dei siciliani
Il 2 dicembre del 1860, Vittorio Emanuele II andò a Palermo per celebrare l’unificazione della Sicilia alla grande madre Italia; a parte la celebrazione ufficiale, il re “galantuomo” ebbe modo di concordare con il luogotenente Massimo Cordero di Montezemolo una strategia per “pulire” la Sicilia dai provocatori del disordine, da coloro che non manifestavano il pieno assetto con il governo, per ripristinare “l’ordine” violato dall’atteggiamento dei facinorosi che davano fastidio alle truppe di occupazione di sua maestà-
Fu concordato un piano d’azione tendente ad assecondare qualche manifestazione di protesta; spie piemontesi e provocatori di professione si misero subito al servizio di Montezemolo per fomentare disordini che avrebbero potuto giustificare “il pugno di ferro” delle autorità.
Agenti segreti del governo piemontese si infiltrarono fra le file degli scontenti per sobillare la popolazione e spingerla ad atti inconsulti.
Il Giornale Officiale di Sicilia, la mattina del 2 ottobre del 1862 pubblicò in prima pagina e con grande risalto la seguente notizia: «Fatti orribili funestarono ieri sera la città di Palermo. Alla stessa ora, in diversi punti della città fra loro quasi equidistanti, tredici persone venivano gravemente ferite di coltello, quasi tutte al basso ventre. I feriti danno tutti gli stessi contrassegni dei feritori, i quali vestivano a un sol modo, erano di pari statura, sicchè vi fu un momento che sipotè credere fosse uno solo».
Le pugnalate vennero inferte a casaccio non per uccidere ma per provocare il panico fra la gente e determinare uno stato di tensione e di insicurezza.
La rapidità e la sorpresa dell’aggressione, la confusione e lo smarrimento degli accoltellati, favorì la fuga dei pugnalatori che svanirono rapidamente nei vicoli e nelle straduzze dei quartieri periferici; favoriti anche dall’ora tarda, quasi la mezzanotte, dal buio delle strade poco illuminate e dall’abito scuro con coppola che indossavano. Dodici di loro riuscirono così a far perdere le tracce; uno solo, quasi per caso, venne catturato: Angelo D’Angelo, palermitano di trentotto anni lustrascarpe di professione; dopo avere squarciato il ventre all’impiegato di dogana Antonino Allitto si lanciò di corsa nei vicoli di Palazzo Resuttana, una serie di viuzze buie e solitarie, ma ebbe la sfortuna di imbattersi nel tenente Dario Ronchei.Tenente dell'esercito italiano, del 51nesimo reggimento, Dario Ronchei, nativo di Borgo San Donnino, era agli ordini del generale Cialdini e faceva parte di quei militari che numerosi erano stati inviati nell'isola durante le tempestose giornate del 1862.
Il tenente Ronchei, la sera del 1 ottobre1863, attendeva l'ora di apertura del teatro Principe Umberto, intrattenendosi con alcuni commilitoni nella birreria Caprera. Verso le 21 un trambusto lo richiamò alla porta della birreria, giusto il tempo per vedere un uomo vestito di velluto nero, con un berretto nero sul capo, che stava scappando; a terra, circondato da una piccola folla, un individuo si lamentava premendosi con una mano il basso ventre. Il tenente Ronchei, sguainata la spada, si dette ad inseguire il fuggitivo insieme ad altri due ufficiali che erano con lui in birreria ai quali si aggiunse il comandante delle guardie di Pubblica sicurezza di Palermo. Nicolò Giordano. L'inseguimento tra i vicoli portò all'arresto di una persona che disse di chiamarsi Angelo D'Andelo, di avere trentotto anni, di fare il lustrascarpe; sottoposto ad un duro interrogatorio da parte dei poliziotti finì con il confessare il suo crimine e fece anche il nome
degli altri dodici accoltellatori che erano riusciti a far perdere le loro tracce. Il 3 ottobre, il giornale Officiale di Sicilia pubblicò in prima
pagina la notizia della confessione del D’Angelo
A contattarlo era stato un certo Gaetano Castelli, il quale gli
aveva proposto di fare un certo “lavoretto” insieme ad altri dodici individui; il lavoretto consisteva nel bucare con il coltello la pancia di gente incontrata a caso.
Nella notte fra il 12 e 13 marzo 1863 cominciarono centinaia di perquisizioni dei reali carabinieri e della polizia, che finirono con
sessanta mandati di arresto, con l’accusa di organizzazione eversiva e di attentato alla sicurezza dello Stato. Gli arrestati erano tutti scontenti del nuovo regime savoiardo e
accusavano i piemontesi di arroganza, prevaricazione e sfruttamento. Ovviamente non c’erano prove ma gli organi di polizia le
costruirono a tavolino imponendo alla Magistratura la Ragione di Stato. Nella lista dei ricercati c’era un nome eccellente: Don Giovanni Corrao, il generale garibaldino che aveva contribuito alla rivoluzione ma che, subito dopo, si era convinto di aver favorito il regime savoiardo ancora più opprimente del precedente.
Diceva infatti il Corrao che la Sicilia non aveva fatto la rivoluzione per cambiare di tirannide.
Fu fatta circolare la voce che Corrao fosse uno della “Maffia”; questo termine fu usato per la prima volta, per etichettare i siciliani, dal prefetto Gualterio che inviò una relazione al Ministero Interno di Torino. Furono i piemontesi quindi ad usare il termine toscano “Maffia” che indicava l’ostentazione della prestanza fisica.
(fonti archivistiche: <<La congiura dei pugnalatori. Un caso politico-giudiziario alle origini della mafia>>, di Paolo Pezzino, Marsilio editore)http://feeds.feedburner.com/BlogFidentino-CronacheMarziane

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