Magazine Racconti
Ci sono storie che nascono e che ti restano sospese dentro perché non riesci a raccontarle. Come la pioggia è una di queste. Nella mia idea avrebbe dovuto essere un romanzo breve. Una storia di perdita e rinascita. Ho buttato giù una quarantina di pagine e poi ho smesso per l’impellenza di realizzare “Nudi” e l’impossibilità mia di proseguire.
Se esiste un tempo giusto per ogni cosa, questo non era adatto a Come la pioggia. Io non lo ero. Forse un giorno, un domani, sarò pronta ad affrontare il viaggio e lo porterò a termine, chi lo sa. Per ora posto qui prologo e primo capitolo.
Prologo
Il tempo fa strane promesse. Come le persone dopotutto. Come il dolore. O la paura. Fosse stato per me, sarei rimasta chiusa nella mia scatola di cristallo a guardare il mondo a distanza. Senza doverlo toccare e senza essere toccata. Mi andava bene. Non ero costretta a sentire, vedere e affrontare il presente. Ogni cosa se n’era rimasta perfettamente immobile nella mia stanza. Persino la polvere, annidata negli angoli più bui e nascosti, aveva scelto di restare la stessa. Identica.
Peccato non si possa scegliere l’immobilità.
Peccato non si possa scegliere di tacere.
Peccato non si possa scegliere di cancellare i ricordi.
Se questo mi fosse stato possibile, anzi, se questo mi fosse stato concesso, io non sarei mai partita.
La partenza
1. Qualcuno mi aveva raccontato che la pioggia cancellava ogni male. Mio nonno forse, seduto sulla sedia di legno, davanti alla grande finestra della villa patronale. Occhi scuri e mani giunte sul grembo. La sua cadenza lenta accarezzava l’aria gelida dell’inverno e si posava, bisbiglio confuso, su di me. L’ascoltavo sempre con l’entusiasmo di chi non sa un bel niente della vita ma brama di conoscerla a fondo per non essere fregata al traguardo. Rapita lo fissavo accoccolata vicino alle sue gambe. Curiosa. Imbevuta d’attese. Tessuta di sogni. Desideri svaniti nel fondo delle mie lacrime.
Dov’ero andata a finire? Io, chi ero diventata?
L’ombra di una donna. Il fantasma di Samantha. Il nulla.
Queste erano le uniche risposte possibili. Non ce n’erano delle altre. No. Non ce n’erano proprio, neanche se le avessi cercate.
La luce estiva, quella calda e radiosa di luglio, investiva prepotente la camera, obbligandomi a coprire il viso con un braccio. Odiavo quella stagione. M’impediva di serrarmi dentro. Mi costringeva, come una maledetta catena, a far entrare il vento. Una brezza leggera, a tratti quasi fresca, dall’inconfondibile sapore del Mediterraneo giocava con le tende, scuotendole avanti e indietro. Avanti e indietro. Avanti e indietro.
Ma io neanche ci facevo caso. Proseguivo a starmene immobile. Statua di sale fagocitata dal dolore. Ammutolita dall’ansia di non essere più me stessa. E d’altronde anche il resto del mio insignificante universo aveva scelto d’aggrapparsi all’eternità di ore incapaci a scorrere. Tutto fermo. Tutto uguale. Persino le valigie giacevano nell’armadio sigillate e mai disfatte. Probabilmente i vestiti s’erano ridotti ad una massa informe e le scarpe a oggetti inservibili. Vecchie cianfrusaglie destinate o condannate a macerarsi nella polvere. Se n’era accumulata parecchia in due anni. Settecentotrenta giorni. Ventiquattro mesi di apatia.
Depressione.
Tristezza.
Anoressia.
Mangia Sam. Ti prego. Le parole di mamma echeggiavano ovunque. Una specie di monito a reagire. Ad ignorare l’assoluto bisogno di mettere un punto alla vita. La mia.
Perché ti comporti così? Semplice.
Giocavo a scacchi con la morte e speravo che prima o poi riuscisse a vincere. Scacco matto Samantha. Click. Fine. Liberazione.
La porta ruggì piano. Tessa, maltesina bianca come la neve, s’avventurò circospetta nella stanza ansimando per l’afa. Non dovetti voltarmi per capire chi c’era. La riconoscevo dai passi. Dal respiro. Dal mugolio col quale m’invitava a farla salire sul letto per farmi compagnia. L’unico essere vivente di cui sopportavo la presenza e al quale consentivo d’avvicinarsi.
«Cucciola…vieni!»
La sollevai con facilità e lei s’arrotolò sulla mia pancia piatta. Indifferente al calore e alle ossa sporgenti.
«Che farei senza di te?»
Bisbigliai, mentre le dita scivolavano dal manto ai fianchi. Era tutto molto diverso in passato. Io ero diversa.
«Tu lo sai Tessa, vero? Te lo ricordi? Te li ricordi quei giorni?»
Vivace e assolutamente presente, strofinò il muso contro il dorso. Un modo come un altro per dirmi di “sì”.
C’era molto silenzio a quell’ora del pomeriggio. Papà sonnecchiava sull’amaca in giardino con un libro aperto sulle gambe. Mamma trafficava in cucina nell’inutile speranza di farmi mettere qualcosa sotto i denti.
Una zaffata dolciastra arrivò puntuale a stuzzicarmi le narici.
«Gelsomini.»
I fiori di nonno. Avrei dovuto portarne un po’ alla sua tomba. Li adorava così tanto.
Posai lo sguardo su una delle foto appese alla parete, avvolta da una cornice avana chiaro. Sottilissima. Quasi invisibile. Impressioni di un settembre ormai scomparso. Seppellito insieme al cuore.
Io e Miguel. Il colore ambrato della sua pelle spiccava contro lo smeraldo dell’iride e il nero dei capelli. Quante cosas que non sai di me, chica. Vero. Non sapevo tantissime cose di lui. Ed ero pronta a scoprirle tutte se solo non m’avesse abbandonata in mezzo al nulla. Se solo fosse rimasto fermo, accanto a me, ad amarmi con la sua voce roca. I modi goffi. Io sono nacido a Esperanza. Tu la conosci Esperanza? No, non la conoscevo. Non sapevo neanche che esistesse una città con un nome simile. Esperanza es un gioiello del sud. Es un diamante entre el verde. Potevo starlo ad ascoltare per ore intere mentre cercava di farmi immaginare il suo paese. Percepirne i colori. Gli odori. I sapori. Ero negata come cuoca a differenza sua che ballava davanti al forno canticchiando o mi sol, o sole mio, o mi sol, o sole mio, senza mai completare la strofa.
Si poteva essere più felici? Evitavo di pormele certe domande, violentata dal terrore di perdere ogni cosa, così, all’improvviso, perché quando hai troppo finisci col restare vuota. Defraudata.
Affondai i denti nelle labbra screpolate. Un rivolo di sangue s’acquietò sul mento, indeciso se scorrere sul collo.
L’aria iniziò a mancarmi. I polmoni sembravano grotte invase dall’acqua. Non volevo ricominciare a piangere, a rompere quel silenzio con i singhiozzi. Era inutile. Miguel Serrano non sarebbe mai tornato indietro.
Foto di brokenwingsx27x http://brokenwingsx27x.deviantart.com/ www.deviantart.com