L’aspetto più interessante di tale analisi controcorrente è dato dalle testimonianze che accompagnano ogni capitolo. Sono storie di giovani considerati fortunati come Simone Testa che aveva studiato, voleva fare il geometra e si è adattato a fare il cameriere. Aveva inviato curricula, aveva telefonato a svariate ditte e imprese inutilmente. Alla fine trova un’occupazione come cameriere presso un hotel a Cesenatico. La considera una «degradazione», completamente fuori dal suo titolo di studio, «ma pur sempre un lavoro». E accetta. E consiglia (come Cazzola): «Bisogna cercare di adattarsi a cio` che l’Italia offre». Anche se è «degradante», ribellarsi, insomma, non è giusto.
Altri tentano un modo diverso. Così Lorenzo Nanni che aveva studiato dieci anni per conseguire la laurea in violino presso il Conservatorio G.B. Martini di Bologna. Campare facendo il violinista è difficile: le orchestre, scrive, sono sempre più scarse e mal pagate. Con la crisi «hanno visto abbattersi sui propri costosi strumenti, oltre che sulla loro sublime musica, la scure dei tagli più drastici». Così si è iscritto al corso di laurea in «Consulente del lavoro e delle relazioni aziendali», presso l’università di Bologna. A ventotto anni si è ritrovato «con tre lauree e nessuna specializzazione».
Un’altra storia ancora riguarda uno che si definisce «colloquista» e che alla fine diventa bancario. È Alessio Maniscalco, laureato in giurisprudenza. Il «colloquista», spiega, «non ha un ordine che tuteli il proprio decoro o un sindacato che ne garantisca i diritti». E quello che «invia curricula on line, con la speranza che il suo cv superi indenne la scure dello screening. È iscritto ai principali siti di recruiting; risponde agli annunci e si presenta, puntuale, al colloquio di lavoro». Così si mescola con altri «colloquisti», spesso considerati «portatori sani di disfattismo». Lui invece è animato da sano ottimismo e alla fine trova un posto in una banca.
Sostiene Cazzola che «Occorrerebbe andare in giro per l’Italia a scovare le storie di quanti – e sono la maggioranza – ce l’hanno fatta». Una convinzione, codesta, sulla maggioranza che ce l’avrebbe fatta, che davvero appare assai discutibile anche solo guardando le statistiche dell’Istat col tasso di disoccupazione giovanile pari al 40,4 per cento.
Tra le proposte di Cazzola, comunque, c’è quella di «trasformare le strutture burocratiche in strutture di sviluppo per le imprese giovanili». Nonché di far evolvere il sapere in funzione dell’evoluzione dei vari settori dell’economia. Gli stessi sindacati, aggiunge, dovrebbero intervenire per eliminare alcuni aspetti che nocciono ai giovani come gli scatti di anzianità previsti nei contratti, facendo premiare la meritocrazia, favorendo il demansionamento ovvero la possibilità di un lavoratore di passare da una qualifica alta ad una meno alta. Con lo scopo di ottenere in cambio nuove assunzioni. Altro elemento da introdurre sarebbe il salario legato a produttività individuale. Una specie di ritorno al cottimo, sembra a me, tipico del fordismo. Anche se lo stesso Cazzola avverte che se uno lavora esclusivamente «per compiti» è logico che la sua retribuzione sia fissa. «Non ha senso parlare di merito e di produttività se poco posso influire sulla produttività stessa».
Altre proposte riguardano i sessantenni disoccupati, la flessibilità part time. Qui si cita il «Contrat de generation» varato in Francia da Hollande e che punta nei prossimi cinque anni a far assumere 500.000 giovani sotto i 26 anni. Un ponte fra generazioni: «garantisce al più anziano il mantenimento del posto, con un ruolo di tutor, di maestro e facilitatore dell’inserimento del nuovo assunto». Da suggerire a Letta invece di tante fumisterie?