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Storie di paese.

Creato il 07 febbraio 2013 da Salvatore Ruggiero @sally57
Umberto Cortese. Di nome e di fatto.
Al mio paese ogni tanto arriva qualche forestiero che, attirato dall'aria buona e dalla quiete innaturale, decide di metterci radici.
Qualche anno fa arrivò in paese, da Napoli, uno strano signore, abbastanza giovane, ma non abbastanza per poter essere definito ragazzo, che si chiamava Umberto Cortese.
Era in compagnia della madre, anziana e malata.
Erano solo loro due, non avevano altri parenti.
All'inizio fu accolto in paese con un po di diffidenza, un po' naturale in questi casi; un po' alimentata anche da alcune sue improvvide dichiarazioni e dal pregiudizio che accompagna quasi tutti quelli che provengono dalla Campania, tradizionalmente considerata terra di affari loschi e di camorra.
A chi gli chiedeva che lavoro facesse, il buon Umberto rispondeva in modo sibillino:
"Mah! Diciamo che mi occupo di assicurazioni!"
Ora, c'è da dire che nel gergo della camorra le "assicurazioni" sono i "contributi non-volontari" chiesti ai titolari di attività economiche in cambio di "protezione".
Protezione, non si capisce bene, da chi e da che cosa, poi, se proprio dalle organizzazioni malavitose possono provenire intimidazioni e attentati a danno di chi non paga.
Così si era scatenata intorno alla figura del buon Umberto una corsa ad appurare più notizie certe possibili sulla sua vera identità, attività e, perchè no!, presunta affiliazione ad organizzazioni camorristiche.
Qualcuno aveva anche avanzato l'ipotesi che il buon Umberto fosse stato mandato in avanscoperta dalla camorra per creare un primo avanposto dell'organizzazione, attirata dalla possibilità di notevoli affari legati allo sfruttamento del locale bacino marmifero, quindi alla commercializzazione del prezioso marmo.
E il sospetto non era del tutto peregrino perchè, da qualche anno, si era scoperto che le pietre informi proveninti dalle cave locali, venivano caricate sui camion della camorra e andavano a finire nelle scogliere e nei frangiflutti di Napoli.
Bastò, cominque, acquisire notizie certe presso i locali carabinieri per scoprire che il buon Umberto nulla aveva a che fare con la camorra e col malaffare, che si chiamava davvero Umberto e che era Cortese di nome  di fatto.
Umberto, infatti, apparve subito per quello che era, cioè uno spensierato e pigro ragazzone, un po' cresciuto e un po' panciuto, senza e nemmeno alla ricerca di una occupazione, che si accontentava di vivere la sua normalissima vita oziosa, alle spalle della anziana madre, sfruttando a dovere i suoi beni e la sua succulenta pensione, che derivava dal lavoro di dirigente bancario del vecchio padre, morto qualche anno prima.
Lui e sua madre, stanchi entrambi della stressante vita cittadina, avevano pensato bene di sbaraccare dalla caotica Napoli; vendere la ricca e spaziosa casa con affaccio su Posillipo e investire il ricavato, non meno di 3-400 milioni, in parte nell'acquisto della casa di Maria U. in località Lormi, in parte nell'acquisto di titoli di stato, che potessero garantire un altro piccolo ma sicuro cespite.
La ricca pensione del padre e la rendita dai titoli assicuravano una vita agiata ad una vecchia quasi inferma e ad giovane uomo senza hobby cari nè vizi troppo dispendiosi, se si eccettua i militaria di cui era accanito collezionista, il fumo e la gastromonia.
I due si erano insediati confortevolmente nella casa in pieno centro storico, ma poco lontana dal centro, appena ristrutturata di tutto punto da Maria U., quindi piena di tutti i confort e molto accogliente.
La madre non usciva quasi mai, ma Umberto aveva subito intessuto e stretto una rete di conoscenze, alcune delle quali sarebbero diventate vere e proprie amicizie, agevolate dal suo cattere estroverso, dalla grande quantità di tempo che aveva a disposizione durante la giornata e dalle sue indubbie e accattivanti capacità affabulatorie tutte partenopee.
Umberto indulgeva nei piaceri fisici, soprattutto in quelli della carne: uno dei primi con cui aveva subito stretto amicizia, infatti, era stato il locale macellaio.
Ma gli piacevano anche la birra, il vino e il pesce fresco. Di cui era un accanito consumatore.
Non erano rare le sue puntatine settimanali nella zona delle pescherie di Formia.
Quotidiana, invece, era la sua passeggiata dall'amico macellaio, dove trovava delle ottime bistecche, le spuntature per il sugo quotidiano che lui stesso curava, una fumatina e quattro chiacchiere in tutto relax.
Io lo vedevo spesso e volentieri, Umberto, e ci scambiavo un cordiale saluto, durante la bella stagione, subito dopo le nove del mattino, mentre andava in giro a piedi per il paese a fare la sua bella spesa quotidiana.
Si vedeva dall'espressione beata che aveva stampata in faccia, che a lui piaceva e faceva pure un po' di moto: il suo unico sport.
E anche questo si vedeva: era già rubicondo quando arrivò a Coreno; era diventato ancora più rotondo dopo qualche mese di residenza.
L'aria di collina, mitigata dal mare del Golfo di Gaeta gli aveva fatto bene.
E lui evidentemente aveva fatto bene a sradicarsi da Napoli e a radicarsi al paese.
Ad ogni modo fare la spesa era la sua occupazione preferita e anche l'unica responsabilità giornaliera.
Lo rivedevo al ritorno, dopo qualche ora, prima che si ritirasse nella sua casa, per preparsi i suoi  piatti preferiti, i suoi appetirosi manicaretti e per accudire amorevolmente sua madre.
Umberto, anche a causa della stazza che glielo permetteva, assommava in se entrambe le figure dell'abbuffone e del raffinato bon vivant; del gourmand e del gourmet, per intenderci.
Spesso veniva da me per la manutenzione di qualche orologio, di cui era moderatamente appassionato o per qualche regalino da fare al figlio di un raro amico di Napoli.
Ci scambiavamo le ricette preferite; mi parlava della cucina napoletana che tanto aveva  influenzato quella del mio e del "suo" nuovo paese; mi raccontava delle sue ex-fidanzate, spiegandomi il motivo per cui non si era sposato.
Un giorno mi disse esattamente, direi tassonomicamente, gli ingredienti e la esatta preparazione  dell'insalata di rinforzo, uno dei piatti napoletani delle feste più tipici. 
Una delle peculiarità che mi avevano più colpito di Umberto Cortese era la sua capacità di raccontare le sue storie, anche quelle più serie, con leggerezza, senza mai emozionarsi nè scomporsi, nemmeno quando ricordava la malattia e la morte abbastanza prematura del padre o gli acciacchi attuali e irreversibili della madre.
Si emozionava vivamente solo quando indulgeva nei particolari relativi al piacere che il consumo di un particolare piatto gli procurava; era particolarmente lento e compassato quando si accendeva una normalissima sigaretta.
Pareva avere una ritualità per tutto ciò che faceva: fatta di gesti misurati ma plateali, eleganti ma ampi, pertinenti ma a volte spropositati.
Un giorno strano di primavera giunse come una schioppettata la notizia che Umberto Cortese era morto improvvisamente.
Aveva avuto un infarto fulminante.
Scoprimmo tutti dopo che era cardiopatico.
Lasciò sola la madre inferma.
Quel raro amico di Napoli, con gesto pietoso, l'ha prelevata dalla vecchia ma confortevole casa ai Lormi e l'ha portata in uno ospizio.
A distanza di qualche anno, dalla morte del figlio, per quanto ne so, potrebbe anche essere morta.
Umberto Cortese, di nome e di fatto, ha attraversato la nostra esistenza come un granello di polvere cosmica attraversa l'universo.
Per disperdersi nell'infinito: ma ha lasciato un piccolo, discreto, prezioso ricordo di se.
A me è piaciuto ricordarlo, brevemente, così: coi suoi pregi, tanti e i suoi rari difetti.

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