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Storie di superstiti

Creato il 27 novembre 2013 da Mapo
L'altro giorno mi hanno raccontato una storia, una di quelle che ti fanno venire le scarpe pesanti, che è un'espressione che conosco; l'ho letta in un bel libro che mi hanno consigliato. Si chiama Molto Forte, Incredibilmente vicino e parla di un bambino piccolo che perde il papà durante l'attacco terroristico alle torri gemelle e che passa l'intero libro, e anche il film che poi è uscito al cinema (che, come tutte le altre volte, è molto più brutto del libro) a cercarlo.Il libro ha la particolarità di non centrare nulla con la storia che vi stavo per dire. Sto già divagando, ed è una cosa che mi succede troppo spesso, tanto che a chi mi ascolta, a volte, vengono le scarpe pesanti. Ecco, appunto.Da qualche mese queste scarpe pesanti sono anche la frase che compare sotto la mia fotografia di Whatsapp, che è una specie di aggeggio che permette ai telefoni di ultima generazione di comunicare tra loro, alle spalle delle persone che li usano.
La storia è la seguente:C'è questo tale, che si chiama Robert Capa e che deve essere una persona di tutto rispetto perchè anche un famoso sito che conosco, che si chiama Wikipedia (http://en.wikipedia.org/wiki/Robert_Capa) gli dedica una pagina intiera; una di quelle lunghe lunghe, tradotte in tante lingue straniere, non una di quelle che durano solo qualche riga e che sembrano scritte da un conoscente che doveva un favore. Questo Robert Capa, dicevo, era un fotografo. Era perché, come si capisce, è morto. Forse non c'era bisogno di scriverlo questo, ma è una storia impegnativa e non bisogna lasciare nulla al caso.Non era un fotografo di quelli che hanno il negozio sotto i portici e stanno seduti al bancone ad aspettare che arriva una coppia di fidanzati che vuole fare l'album delle nozze, o che passa i pomeriggi nel retrobottega a immortalare bambini grassocci per la loro prima carta d'identità. Era (era perchè, come si capisce, ora è morto) uno di quei fotografi che, come si suol dire, vanno sul campo. Non quello da calcio, mica fotografava la Nazionale! Si intende che andava a cacciarsi nei pasticci più disperati per fare fotografie, a cominciare dai posti di combattimento, dove la gente si uccideva per davvero.Mi sono chiesto se non avrà avuto una mamma, a dirgli che sono pericolosi i posti di guerra, e che le fotografie è meglio farle al mare, sull'Adriatico, con gli zii sotto l'ombrellone?Forse no, su questo la pagina di Wikipedia non è molto chiara. Sta di fatto che ci lascia le penne, nel 1954, alle 2.55 del 25 maggio, mentre faceva fotografie durante la prima guerra dell'Indocina, che mi sembra un posto molto lontano dall'Adriatico. Ma neanche questa è la storia che volevo raccontare e, a questo punto, forse vi sarete già stufati, le vostre scarpe sono diventate pesanti e magari sto scrivendo una cosa che non leggerà nessuno. Io ci provo comunque.
Robert Capa era uno che di palle ne aveva un bel po'. Non foss'altro perché, il 6 giugno del 1944, invece di starsene a sollazzare a Manhattan con un sigaro in bocca, imbracciava elmetto e macchina fotografia e, insieme a migliaia di soldati americani, sbarcava a Omaha Beach, in Normandia.Voleva immortalare l'avvento degli alleati giunti a liberare l'Europa nazifascista. Capa aveva 31 anni. Avete presente Salvate il soldato Ryan? C'è una pagina di Wikipedia anche per quello, in effetti, ma per il momento non importa.Storie di superstitiIl film comincia con la lunga, cruda e realistica scena (24 minuti di tensione) dello sbarco. I piani sequenza sono così precisi da sconcertare; le storie dei soldati, talora elementi singoli nella massa, talora sciame informe di puntini tutti uguali e indistinguibili, sono dipinte nei più vividi dettagli, tra pianti disperati, telefoni che non funzionano e gambe amputate, in un bagno di lacrime, fango, sangue e sudore.Capa scattò più di 100 fotografie quel giorno. 106, per la precisione. Ognuna, anche solo per l'azzardo, varrebbe da sola un premio Pulitzer. Di fianco a lui esplodono le granate, i proiettili sfrecciano veloci trafiggendo i suoi compagni di viaggio, l'acqua dell'oceano, marrone come quella dell'Adriatico, anche se ad alzare la sabbia sono stivali e cingolati invece dei piedi nudi dei bagnanti, si tinge via via più di rosso.Lui, che sembra uno capitato lì quasi per caso, manda giù la saliva e cerca un po' di coraggio, almeno quello necessario a proseguire con la Reflex al collo, facendo foto qua e là. Un'ora e mezza, circa, ma lunga una vita.Attraverso un corriere i rullini attraversano il mare e arrivano negli uffici di Life, la rivista per cui lavorava.E' fatta. Questo trentunenne di origine ungherese, nato sotto il segno del sagittario, ha appena portato a termine uno dei servizi fotografici più importanti della storia della fotografia.O forse no: il tecnico di camera oscura, un giovane apprendista alle prime armi, sarà per il panico, per la fretta, per uno di quegli strani battiti d'ali di farfalla in grado di cambiare la storia, aumenta a dismisura la temperatura dell'asciugatore. Le fotografie si bruciano, come si dice in gergo. Completamente da buttare, tranne 11 immagini, mosse e un po' sfocate.E' da quelle 11 foto superstiti e dalla loro incredibile storia che nasce l'immaginario collettivo del famoso D-day, Salvate il soldato Ryan e compagnia bella.
Ecco, questa è la storia che volevo raccontarvi.Ma anche questa è una cosa che qualcuno, forse, ha fatto meglio di me (http://eudemonico.altervista.org/wordpress/robert-capa-e-lo-sbarco-in-normandia.html).

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