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Storie di una Repubblica – Kashmir

Creato il 16 giugno 2013 da Thefreak @TheFreak_ITA
Storie di una Repubblica – Kashmir

Era una mattina di sabato.

Scendevo giù dalla collina che era molto presto e faceva freddo, anche con addosso il cappotto pesante di mio fratello Tommaso e la sciarpa tirata su fino a coprire la punta del naso. La strada era gelata e la nebbia copriva tutto, tranne le cime dei cipressi lungo la via.

Avevo diciotto anni, da poco compiuti. Camminavo velocemente per sfuggire all’aria pungente che intorpidiva le mie mani. Nubi di vapore dalle mie narici e pozzanghere ampie, come specchi di cielo. Un po’ più sotto c’era la casa di Bernardino. Gli lanciai un fischio, dalla strada, e poco dopo lo vidi scendere, con la solita flemma e la colazione ancora in bocca.

Fu quel giorno che la vidi, in lontananza, mentre ci avvicinavamo alla banchina in cui si fermava la corriera per portarci su al Paese, alla scuola agraria.

La vidi, avvolta dentro una sciarpa rossa, una statua con le braccia incrociate e il volto privo di alcuna espressione.

La terra era bagnata in profondità, come gli scarponi e le punte dei piedi.

Boia che freddo! – azzardò Bernardino quando le fummo accanto.

Lei non disse nulla. Non ci guardò nemmeno.

La osservavo incuriosito con la coda dell’occhio per capire cosa facesse lì. Era una nuova? Continuava a far finta di non vederci. Evidentemente, ci stava ignorando. Volutamente, ignorando.

D’istinto alzai un sopracciglio e le diedi le spalle.

Che hai? – mi chiese Bernardino, aggiustandosi meglio la cartella sulla spalla.

Ma chi è? La conosci?

Boh sarà quella che doveva venire da Roma… la figlia di Mariano, il sindacalista. Hai capito chi?

Feci un cenno col capo. Sì, avevo capito.

Mi tornarono in mente i discorsi tra mia madre e mia sorella Tilda. Raccontavano che Mariano, dopo la morte della moglie, aveva spedito a Roma sua figlia, ancora piccola, dalla cugina. Ora che lui si era fatto più vecchio e la ragazzina era diventata quasi una donna, l’aveva lasciata tornare.

Dicevano così, loro.

L’aveva lasciata tornare.

Magari, pensavo io, le aveva chiesto di tornare.

La fissavo.

A giudicare dall’espressione scocciata, sicuramente, era stata costretta.

Si incrociarono, i nostri occhi, ma quando le accennai il mio saluto, si era voltata di nuovo. La mia voce era debole, stranamente debole. Non arrivò alcuna risposta e pensai, dunque, che non mi avesse sentito.

OOOhhh romana… Sei la romana?

Spalancai la bocca, feci due passi indietro, sarei voluto scappare a nascondermi. Bernardino, mortificato quanto me per la ritrosia della nuova ragazza, aveva deciso di intervenire con i suoi affabili modi.

Lei si era girata verso di noi, trafiggendoci con quei suoi occhi di cui per la prima volta mi accorgevo. Sembrano grandi e pieni. Guardandoli pensai ai chicchi d’uva matura che infestano il grappolo per la vendemmia, scuri e appannati di grigio.

Sono Maria, M-A-R-I-A – scandì bene, stizzita.

Poi, prese a camminare svelta, con lo sguardo dritto davanti a sé, nella direzione opposta alla nostra.

Dove vai? Guarda che non ci arrivi al paese a piedi… ooooh!!

Lanciai un’occhiataccia a Bernardino per farlo tacere.

Questa è matta! – protestò.

Sei un idiota – rincarai a denti stretti.

Mi avviai verso di lei.

La chiamai più volte, ma procedeva rapida, sempre più rapida. Sapeva che volevo raggiungerla.

Da lontano le urlai le mie scuse.

Avrà pensato volessimo infastidirla? Colpa di quel cretino.

Per raggiungerla mi misi a correre, finché arrivai a pochi centimetri da lei, tanto che avrei potuto sfiorarle la spalla alzando di poco la mano, minuta com’era. Vista da dietro, sembrava ancora una bambina.

Desideravo fermala, bloccarla, poterle dire qualcosa. Lo feci, in un moto d’istinto.

La sfiorai appena, con la mia solita incertezza, il cappotto era pesante, non sapevo nemmeno se avrebbe avvertito il mio tocco, subito dopo provai timore per la possibile reazione.

Maria avvertì che le ero dietro. Percepì la mia mano protesa verso di lei, sentì la punta delle mie dita appoggiarsi sulla sua spalla destra, sfiorarle appena i capelli.

Quei capelli arruffati e lunghissimi.

Si voltò di scatto per scaraventarsi contro di me.

Vacci piano!! Non credere che non sia in grado di difendermi da sola…

Di colpo mi arrivò uno spintone. Mi pestò un piede. Un altro spintone per allontanarmi di più da lei. Ero sconvolto. La guardai inorridito, le guance rosse e il fiatone, gli occhi ancora più grandi e scuri, li vedevo per la seconda volta.

Tranquilla.. – cercavo di placarla – volevo solo scusarmi per il mio amico…

Bell’amico… un signore..

Sì in effetti, è un po’ buzzurro, lo riconosco…

Solo un po’?

Alzai le spalle. Aveva fatto una tragedia per nulla.

Si capisce che non sei di queste parti… la gente qui parla tutta in questo modo.. senza troppe cortesie…

Rimase un attimo in silenzio, un istante appena. Diede fiato ai polmoni per potermi aggredire di nuovo, ma per fortuna la corriera stava passando. Alzai il braccio e urlai a Pierino, l’autista, perché si fermasse e ci facesse salire.

Bernardino era già su, seduto al suo posto, accanto al mio, vuoto.

Non avete camminato molto… – ridacchiava, facendomi posto per potermi sedere.

Feci segno di no col capo.

Maria, siediti – la invitai.

Niente da fare. Come se non avesse sentito. Stava dritta, con le braccia sempre incrociate ed io dietro di lei. Sentivo il suo odore, che sembra di agrumi, mentre pensavo a come fosse strano sentire profumo di arancia e limone in quella corriera in pieno gennaio, con le dita dei piedi gelate che non si sentivano più e radio AUT che mandava Lucio Battisti, Sì viaggiare.

Pierino, alza un po’!!! – urlarono da dietro.

Canticchiavo.

A voce bassa bassa.

Dolcemente viaggiare… rallentando per poi accelerare… con un ritmo fluente di vita nel cuore…

Lei si girò verso di me, con un sopracciglio alzato.

Canti?

Feci di sì con la testa, poi alzai di un poco il tono, vedendo che iniziava a sorridermi.

Quando attaccò di nuovo la tromba feci il gesto con le dita, premendo pistoni immaginari.

Rideva. Maria. Mentre io facevo il buffone, per lei.

Come ti chiami?

Io? Paolo, mi chiamo Paolo.

La domenica nessuno della mia famiglia andava mai messa.

Mio padre era già sveglio alle cinque, perché la terra e le bestie non conoscono il giorno del Signore. Il grande camino aspettava le sue mani. Il secchio e lo scopetto di saggina, la cenere raccolta in un angolo. Lo sentivo armeggiare già di buon ora, mentre io ero ancora nel letto. Poco dopo sarebbe venuto a svegliarmi, perché non è bene dormire troppo a lungo la mattina.

In una famiglia di braccianti la domenica viveva di sacralità che rendevano quel giorno santo anche senza preghiere. Le abitudini divenivano rituali, come quel modo in cui le donne stendevano la pasta sbattendola con forza con il mattarello. Nei loro gesti naturali e meccanici mi sembrava di leggere, ogni volta, tutto il loro attaccamento a quei segreti che sembravano custodire in silenzio, sin dal giorno in cui erano venute al mondo.

L’odore che riempiva la stanza era quello del sugo d’oca bollente sul fuoco, miscelato al sapore della farina che come vapore si alzava nell’aria. Tutto era impregnato del profumo di vino stappato e versato su bicchieri di vetro tutti diversi tra loro. C’era il rumore dello spiedo che girava sul fuoco si incantava ogni tanto. Le patate addormentate sotto la cenere, cotte dal tepore dei carboni. La tovaglia a scacchi bianchi e color mattone seminata di mollica da pane cotto a legna. Le parole scambiate in una religiosa quiete. Il piacere del caffè e del torrone rimasto, ancora, dopo le feste.

Ero seduto sulla pietra quasi bollente del focolare. Gettavo pezzi di legno per ravvivare il fuoco, mentre distrattamente mi arrivavano le voci delle donne che sistemavano la cucina.

L’ha dovuta prendere in casa, perché era diventata una scapestratella, una testa calda, s’era messa a fare politica… aveva preso brutti giri, insomma..

Anche Paolo fa politica – aveva ribattuto Tilda, contrariata.

Paolo è maschio.. e poi non fa politica. Va ogni tanto a perdere tempo davanti alle fabbriche, con gli operai, con quelli del sindacato…

Che c’entra che è maschio? – Tilda aveva sbattuto l’anta della credenza, guadagnandosi un’occhiataccia della mamma e poi era filata in camera sua.

Me ne stavo muto. Avevo capito di chi stessero parlando. C’era Maria al centro di ogni loro discorso, la ragazzina che veniva da fuori, la straniera. Era fastidio quello che provavo per il modo in cui si riferivano a lei? Ognuno di loro la guardava o ne parlava con la gelosia ceca di chi vive in un mondo piccolo piccolo che non deve essere turbato. Avevano paura?

Eppure, quella ragazza non mi pareva troppo diversa da noi. Suo padre faceva l’operaio alle fornaci ed era sindacalista, la mia famiglia lo conosceva bene ed anche io ci avevo parlato, diverse volte, durante gli scioperi cui aderivamo anche noi studenti di Lotta Continua. Era comunista, come quasi tutti, qui. Il fatto che l’avesse mandata a Roma, perché non aveva idea di come si crescesse una bambina, mi sembrava piuttosto ragionevole. Doveva esserci dell’altro. Ne ero quasi certo.

Stavo pensando a questo quando qualcosa arrivò a distrarmi.

Che sarà tutto questo baccano? – si lamentavano in casa.

Era musica.

Spalancai la finestra.

Paolo che fai? Entra il freddo!!

La musica veniva dalle case più sotto, quelle vicine alla strada.

Una vampata di euforia era arrivata a svegliarmi dal sonno pigro dei miei pensieri.

Questi sono i Led Zeppelin – aveva detto Tommaso, che per sentire meglio si era sporto di un bel po’ fuori dalla finestra.

Mi voltai e vidi mia madre esterrefatta in una maniera tanto divertente che scoppiai a riderle in faccia.

Paolo!!! – urlò lei.

Uscii come un razzo. Sapevo che tutto questo scandalo non poteva che avere un nome e una matassa di capelli castani arruffati.

Non era passato nemmeno un giorno dall’ultima volta che l’avevo vista, eppure, le mie gambe si muovevano a passo veloce, verso la finestra da cui veniva la musica.

Le ante erano spalancate sul gelo e lei era di spalle, con i capelli raccolti in una lunga coda.

Mariaaaaa…!!

Non mi sentiva.

Ballava, però, ed io me ne stavo lì sotto, a seguire i suoi movimenti, con la bocca socchiusa ed il fiato un po’ corto. Mi sembrava bellissima.

Mariaaaa….!!

Si era voltata ed io mi ero messo a sbracciare.

Senza abbassare il volume fece un gesto alzando il braccio, per salutarmi.

Poi tornò di nuovo a ballare, sparendo dentro la stanza.

La corriera passò di nuovo il lunedì successivo. Io e Bernardino eravamo lì, su quella banchina di breccia, sulla strada di breccia, come da sempre. E poi, c’era Maria.

L’Istituto agrario era la strada per quelli come me, quelli come Maria. Al paese c’era solo quello o il Liceo classico. Erano anni in cui tutto se ne stava spaccato in due, senza termini di conciliazione. Anche sulla corriera che portava noi ragazzi fin sopra, al centro del Paese, dove stavano i due istituti: c’erano i figli dei dottori e quelli degli operai e dei contadini.

Eravamo tutti schierati, senza che almeno la nostra età potesse rappresentare un punto in comune, senza che fosse possibile discutere evitando di mettere in mezzo il Partito, lo Stato, lo sciopero, la lotta.

Che ascoltavi ieri, dopo pranzo? – chiesi a Maria.

Ti piaceva? Te l’ho messa apposta, per fartela ascoltare…

Apposta? – non riuscii a prenderlo in tempo per contenerlo, quel sorriso ampio che comparì sul mio viso, mentre mentalmente mi invitavo ad essere meno esplicito, se non con me, almeno con lei.

Sì.. sapevo che con la finestra aperta ti sarebbe arrivata la musica.. era Kashmir. La conosci?

Kashmir – ripetei a pappagallo.

Lei annuì sorridendo.

Ma era un’altra Maria?

Puoi venire ad ascoltarla da me, se vuoi, qualche volta.

Deglutii.

Posso?

Annuì. Poi sorrise Ancora.

Eravamo tutti e due accanto alla vetrata che dava sul cortile. Mi ero avvicinato a lei sperando che si accorgesse della mia silenziosa presenza.

Era una bella giornata di Marzo, di quelle in cui ti illudi che sia già primavera. Le piante stavano tornando verdi ed il cielo era limpido. Maria lo guardava assorta, in una nube di pensieri che avrei voluto leggere o almeno scacciare.

Non volevo parlarle io, per primo.

Avvicinai il naso al vetro, appannandolo. Maria non mi vedeva.

Non ti piace stare qui, vero? – ecco, avevo già ceduto.

Un suono gutturale fu la sua unica risposta.

Perché? Non stai ben con tuo padre?

No. Non servo a nulla qui.

Aggrottai le sopracciglia. Che poteva significare? Stavo per chiederglielo. Non ne ebbi il tempo.

Maria si voltò a guardare verso il corridoio. Un gruppo folto di ragazzi ci camminava davanti, rapidamente, in processione muta. Mi accorsi dei loro sguardi cupi e mi pareva che avessero assunto tutti la stessa postura. Stavano con il capo abbassato e le braccia lungo i fianchi, i pugni stretti. C’era anche Bernardino.

Hanno rapito il Presidente della D.C., questa mattina, in via Fani. Hanno ucciso gli uomini della sua scorta.

Tutto l’Istituto si precipitava in aula Magna, molti stavano solo sulla porta ad ascoltare le notizie che venivano dall’unico televisore, posizionato in un angolo della stanza.

Con un po’ di fatica riuscimmo a farci strada fino a poter vedere le immagini.

La voce di un giornalista e le auto con i cadaveri dentro. Il luogo dell’assalto, le immagini disturbate, i nostri sguardi fissi, il silenzio sceso. Mitra. Bossoli cerchiati sull’asfalto.

Sul volto di Maria, una espressione indecifrabile.

Mi accorsi, ad un tratto, che anche i miei pugni si erano stretti. Lo stesso moto di rabbia avrebbe raccolto anche me.

Tornai con lo sguardo ancora su Maria. I suoi occhi erano diventati fessure. Si era seduta su uno dei banchi con una mano a sorreggerle il viso e a coprirle la bocca.

Solo a vederla si gelò il mio sangue, come in un’impressione che dentro di me si agitava e di cui non riuscivo a capire la direzione.

Più tardi, sulla corriera, si parlava di una manifestazione congiunta, operai e studenti, per dar voce alla protesta e allo sdegno nei confronti di quell’atto ignobile che ci aveva feriti tutti.

Alla fornace… l’hanno indetta subito, appena saputo.

Maria, tu vieni? – le chiesi mentre facevamo a piedi l’ultimo pezzo di strada per tornare a casa – ci sarà di sicuro anche tuo padre.

Figuriamoci… lui in prima fila… – era un tono di astio, segnato da un profondo disgusto.

Mi ammutolii.

Siete tutti bravi a fare i buoni. Non è vero? Non capite che questo attacco rivolto allo Stato è un ricatto necessario e che non ha un prezzo…costi quel che costi. La lotta armata è l’unica via per…

Basta!! – scoppiai – non dirmi altro, non voglio sentire altro su questo delirio – scuotevo la testa, ma in me c’era tutt’altro che confusione.

Capivo tutto.

Comprendevo, improvvisamente, il perché di quelle chiacchiere tra la gente, eppure, non potevo comprendere lei. Con ogni sforzo, non ci riuscivo. Ero anche io chiuso dentro il mio mondo piccolo e pieno di paura? Ecco perché Mariano l’aveva lasciata tornare, l’aveva tolta da qualche guaio in cui, ne ero ormai certo, si era cacciata. Qui si sentiva inutile, emarginata da tutti i fatti che stavano accadendo nella sua città e in cui, evidentemente, si sentiva coinvolta.

Tu lo sapevi cosa sarebbe successo oggi?

Mi guardò come per dirmi qualcosa, qualcosa che non avrebbe potuto dire.

Rifiutavo di chiederle, mi imposi di non proferire nessun’altra parola. Non volevo sentire altro.

Non sapevo quale fosse stata la sua vita prima di arrivare da me, ma nella mia testa si affacciavano pensieri terribili. Ormai, Maria mi era penetrata in un posto dentro, in un punto che si avvicinava al cuore o che forse lo prendeva in pieno, senza che mi fossi preoccupato in anticipo di segnarmi la strada per farla uscire.

C’era dell’altro dietro a quella frase carica di disprezzo, eventi della sua vita che non volevo conoscere, volti e voci da cui avrei voluto strapparla. Non avrei potuto discutere, non con lei. Se avessimo iniziato a parlare, dalla sua bocca sarebbero uscite parole cariche di odio, di una violenza giustificata in un delirio folle. Avrei voluto essere sordo.

Camminavamo e io me ne stavo zitto, con il cuore sbalzato.

La sentivo, con lo sguardo sceso su di me. Forse, per la prima volta, mi guardava davvero.

Non dici nulla?

No – risposi con poco fiato – non dire nulla neanche tu, per piacere.

La vidi salire le scale di casa, con un passo deciso, senza esitazioni. Maria non sarebbe tornata indietro, non da me, non sulle sue idee. Ripresi a camminare con le gambe e le braccia pesanti.

Mi chiedevo se tutta quella delusione venisse dalla sue parole o dagli effetti che avevano provocato in me. La seconda possibilità mi pareva più grave della prima. Non ero disposto neanche ad ascoltare il suo punto di vista, figuriamoci anche solo a tollerarlo. Di tutte le motivazioni che potevano spiegare la ragioni di Maria, non ero capace di tenerne in considerazione nemmeno una.

Ero come tutti gli altri. Peggiore, anzi, perché ero rimasto incantato da quella inquietudine mal celata nella sua assenza perenne, nel distacco silenzioso che la rendeva tanto lontana e diversa da noi. Ora, che aveva parlato e si era mostrata, ora che mi aveva guardato.. l’ascia delle mie convinzioni era caduta sulle sue, senza rimedio.

Arrivai a casa, le note di Kashmir risuonavano ancora. Maria rompeva di nuovo il mio silenzio, ma io questa volta non sarei corso sotto la sua finestra. Rientrai in casa e chiusi dietro di me il portone.

Non sentivo più nulla.

di Alessia Rosati All rights reserved

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