C’è un dire celeste, proprio dell’umile volgo, capace di inabissarsi in una dimensione senza luogo e senza tempo. Qualcosa che accomuna tutti i popoli della Terra e che ce li fa sentire come parte di un comune sentire, con gli stessi sentimenti, le stesse paure, le medesime aspirazioni. In quel dire che si esprime in forme semplici, c’è tutta l’immediatezza della parola che si fa cosa; c’è la perfetta simbiosi tra il gesto e la parola che rende in modo mirabile la trasmissione di un messaggio o di una storia. È un poetare della mente capace di trasmutare episodi ordinari in eventi straordinari per dar luogo a storie intrise di un celeste quanto terreno surrealismo. Tale sublimazione del pensiero era propria delle umili genti d’un tempo che sembra ormai remoto; di pastori, contadini, donne intente al quotidiano faccendar di casa… dai loro racconti fiorivano storie di tesori nascosti, di incantesimi e di maledizioni da sfatare; storie di reucci e reginelle, di popolane dall’ingegno aguzzo e di buffi personaggi maschili, sciocchi e saggi a un tempo; storie popolate di esseri fantastici, come uccelli fatati che assumono sembianze umane, pappagalli che raccontano fiabe, asini che cacano denari, mammedraghe fameliche e diavoli dispettosi; storie pregne di colori e di suoni, che odorano di zagara e zafferano, che sanno di olio d’oliva, di mosto, di sanguinaccio, di erbe selvatiche e pan bagnato con lo zucchero; dove giardini rigogliosi sono colmi di arance, melograni, datteri, fichi, uva e fichi d’India; dove si entra e si esce passando per porticine, botole, cunicoli e pozzi che spalancano altri mondi. Queste storie son figlie del Mito, d’un’epoca in cui i fenomeni naturali che circondavano gli uomini assurgevano a divenire elementi mitici. Laddove il mito celebrava gli dei, le novelle raccontano degli uomini; non più l’Olimpo con le sue innumerevoli divinità, ma la terra con quanto in essa ha vita: uomini, animali, piante, però trasfigurati da una poetica alchimia. Con il passaggio dal mito alla leggenda, e infine alla novella, i luoghi delle narrazioni diventano dunque la terra e gli inferi, talvolta il cielo e il mare, senza tuttavia perdere del tutto quella loro originaria connotazione religiosa, finendo con l’incorporare usi e riti che a essa rimandano. Ma nel loro lungo processo di trasformazione e di stratificazioni, viaggiando per continenti, per mari e terre, queste storie rivelano e costituiscono anche un affascinante
trait d’union di quelle che furono le attese, le aspirazioni, le credenze, le superstizioni di popoli geograficamente distanti tra loro e pur vicini nei comportamenti e nelle risposte che si davano in rapporto alla vita, alla morte e a ogni altra umana esperienza che li accomunasse.
Questo è ancor più vero e palpabile nelle fiabe siciliane. Non stupisce che proprio questo piccolo triangolo di terra posto nel cuore del Mediterraneo sia tra i più ricchi al mondo di storie da raccontare. Questa isola-mondo, cuore d’Europa e del Mediterraneo, lungo la sua storia millenaria è stata ricettacolo di popoli e culture diverse dei quali conserva indelebili tracce, non soltanto nell’arte, nell’architettura e nelle espressioni linguistiche, ma anche e soprattutto in quel ricchissimo deposito fatto di riti, tradizioni e racconti popolari. In questo meticciato mondo, insieme caotico e affascinante, in molti hanno attinto a piene mani come in una sorta di forziere che dischiude i suoi tesori, ciascuno trovando ciò che andava cercando. Ma di tutti i viaggiatori che d’ogni parte d’Europa hanno avuto in
Sicilia il loro approdo, soltanto uno potremmo annoverare come il vero viaggiatore, colui il quale è stato in grado di portare più compiutamente a frutto il suo personale viaggio tra le genti della Trinacria, costui è Giuseppe Pitrè. Nato e vissuto a
Palermo (1841-1916), Pitrè è stato il più importante raccoglitore e studioso di tradizioni popolari del XIX secolo. Medico di professione, aveva sviluppato fin da giovanissimo un particolare interesse verso quanto concernesse la storia, gli usi, i costumi e le tradizioni della sua terra, iniziando un’intensa attività di raccolta
di tutto ciò che fosse inerente questo suo
vasto campo di ricerca: canti, proverbi, giochi, usanze, feste religiose, indovinelli e, soprattutto, fiabe. Mentre andava a visitare i suoi pazienti, procedeva instancabile nella sua sistematica raccolta, adibendo il calesse a un vero e proprio studio ambulante, con tanto di scrivania e varie nicchie contenenti fascicoli, corrispondenze e libri vari, ciò che lo rese noto presso il popolo di Palermo come il piccolo dottore che annotava e scriveva persino libri interi nel suo calesse.
Di tutta la sua prolifica attività,
magnum opus per eccellenza è senz’altro la monumentale
Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane, pubblicata dal 1870 al 1913 e che consta di ben venticinque volumi. Quest’opera, in cui confluì l’immensa mole di materiali incessantemente raccolti negli anni, è forse quella che più di tutte testimonia e suggella il più profondo rapporto di collaborazione fra Pitrè e il popolo siciliano. Di questa grande
Biblioteca fanno parte i quattro volumi delle
Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani, pubblicati nel 1875 dall’editore palermitano Luigi Pedone Lauriel. Per la pubblicazione delle fiabe Pitrè si era attenuto a un metodo rigorosissimo, trasponendole sulla pagina così come venivano narrate dalla viva voce delle raccontatrici e dei raccontatori. A differenza di molti suoi predecessori in Europa, egli si sforzò di restituire quanto più fedelmente possibile la lingua parlata, senza intervenire in alcun modo, senza perseguire fini letterari, ma con il solo precipuo intento di trasferirne per quanto possibile tutta la genuinità. Un’operazione simile aveva tentato la coeva Laura Gozenbach che raccolse un centinaio di fiabe della Sicilia orientale pubblicandole in lingua tedesca a Lipsia nel 1870, rammaricata di non esser riuscita a «riprodurre il fascino particolare che risiede nel modo di raccontare delle siciliane».
Mentre altri prima del Pitrè si erano spinti a riscrivere le fiabe che andavano raccogliendo presso il popolo, finendo con il farle proprie (si pensi ai più celebri fratelli Grimm i quali si intestarono le fiabe raccolte presso il popolo germanico), egli si limitò a trascriverle con un puntiglio quasi stenografico. Poiché la fiaba si consustanzia della individualità di chi la racconta, della capacità mimico-espressiva del suo narratore, ecco che a corredo di ciascuna, oltre al nome di chi gliel’ha raccontata, egli fornisce delle descrizioni che cercano di restituirne in volto, la mimica, il tono della voce, una qualche interiezione. Una metodologia, la sua, estremamente colta e lungimirante per l’epoca, che non ha eguali in nessun altro repertorio coevo della fiaba europea e che conferisce alla sua opera un alto e indiscutibile valore scientifico nel campo degli studi dell’antropologia culturale. Jack Zipes, esperto di fama internazionale che alla fiaba ha dedicato numerosi studi, ritiene infatti che, più di ogni altro folklorista dell’Ottocento, Pitrè abbia fornito il maggiore contributo nel gettare le basi per gli ulteriori sviluppi nella raccolta e preservazione delle tradizioni orali popolari; con le sue trecento fiabe, e per la loro fedele ed efficace trascrizione, a suo giudizio i quattro volumi di
Fiabe, novelle e racconti pubblicati da Pitrè sono più importanti delle fiabe dei Grimm, poiché riflettono gli usi, i costumi e le superstizioni della gente comune di Sicilia molto più di quanto riescano a fare le varie raccolte compilate dagli studiosi europei a cavallo tra Otto e Novecento nel ritrarre le esperienze della gente comune dei rispettivi paesi.
Tuttavia, proprio un siffatto rigore scientifico seguito dal Pitrè, ha costituito insieme il pregio e il limite della sua opera. L’essere state trascritte in siciliano, senza il supporto di una traduzione in lingua italiana, ha reso purtroppo questo prezioso patrimonio inaccessibile a un pubblico più vasto, e ciò per quasi un secolo. Solo nel 1956 quaranta di questi racconti siciliani vengono tradotti per la prima volta in italiano e inclusi nella raccolta delle
Fiabe italiane curata da Italo Calvino, che per l’occasione definì quella di Pitrè come la collezione di storie orali più ricca, e forse più bella, che l’Italia abbia mai avuto. In momenti diversi, altri scrittori si sono occupati di fornire delle traduzioni in lingua delle fiabe siciliane che, pur se attraverso delle rielaborazioni letterarie, hanno in qualche modo favorito il traghettamento di alcune di queste storie oltre lo Stretto. Paradossalmente la prima traduzione integrale dei quattro volumi del Pitrè è stata in inglese, a cura proprio di Jack Zipes, nel 2009.
E soltanto adesso, grazie alla collaborazione tra Donzelli Editore e Fondazione Sicilia, arriva in libreria la prima traduzione integrale in italiano moderno dei quattro volumi di Pitrè. Un vero e proprio evento editoriale, che ha il merito di restituirci quello che a buon titolo è da ritenersi un prezioso patrimonio culturale nazionale. L’opera, pubblicata in una doppia edizione (quella maior dal titolo Fiabe, novelle e racconti popolari siciliani con testo siciliano a fronte, e quella minor dal titolo Il pozzo delle meraviglie. 300 fiabe, novelle e racconti popolari siciliani che propone solo la versione in italiano), si avvale della traduzione di Bianca Lazzaro e della cura di Jack Zipes, arricchita delle splendide tavole disegnate dall’illustratore argentino Fabian Negrin. “La doppia edizione delle Fiabe di Pitrè corrisponde a un obiettivo esaltante: mettere in circolazione un tesoro assoluto della letteratura popolare, vorrei dire senza mezzi termini un monumento della tradizione culturale italiana, sottraendolo a un oblio che dura da quasi centocinquanta anni. Per fare questo si trattava di tradurre, per la prima volta integralmente e nel modo più rigoroso, queste trecento storie dal siciliano all’italiano, rispettando il ritmo della narrazione orale, restituendo il gusto del parlato, e ricostruendo – senza facili concessioni a qualche finto sicilianismo – i colori e il calore di un contesto.” afferma l’editore Carmine Donzelli.
“Se finalmente dopo quasi un secolo e mezzo ha un senso trasgredire il divieto di Pitrè è perché le sue quattrocento storie sono tuttora in grado di parlare ai lettori non specialisti. Sono storie in grado di parlare, nel senso che le parlantine in cui ci vengono raccontate hanno una ricchezza espressiva e una vivacità immaginifica che è rimasta intatta per quasi centocinquant’anni. Ecco, la traduzione qui proposta, prova a riprodurre quelle parlantine, quelle voci che a decine compongono il coro che prorompe da queste pagine che Pitrè ha voluto <> per i posteri.” dice la traduttrice Bianca Lazzaro.
“Quando la diversità culturale è un valore aggiunto, piuttosto che una specie di
apartheid, una risposta elegante, ma chiara alla cultura sicilianista dell’esclusione, valeva la pena darla, soprattutto in nome di una morfologia letteraria, che della fiaba ha fatto un codice e insieme un linguaggio universali. La prima traduzione italiana di tutte le sue fiabe serve anche a questo, a riconsegnarci la figura di uno scienziato e di un uomo fuori del comune, tutt’altro che isolazionista ed escludente come è a volte la cultura siciliana. Ma a sorprendere (…) è oggi soprattutto la lettura delle fiabe, infinitamente seducenti grazie alla loro incantata asciuttezza, all’esercizio di un umorismo non rassegnato e pronto a sconfinare nella satira, al visibile incrocio di culture che si sono sovrapposte nel corso dei secoli, alla rappresentazione di un mondo contadino di realistica durezza, alla stilizzata e non troppo cruenta amoralità imposta dalla forza del desiderio, e infine alla presenza di eroine intraprendenti e pronte a forgiare il proprio destino come a farsi beffe degli uomini dai quali prima o poi si faranno sposare.” scrive il presidente della Fondazione Sicilia, Giovanni Puglisi.
L’obiettivo di Donzelli, in quella che aveva tutti i connotati di un’impresa titanica, è stato raggiunto in modo eccellente, regalando al pubblico un’opera di assoluto prestigio che, ci auguriamo, possa entrare nelle case di molti. Nel 2001 l’UNESCO inseriva, prima fra tutte le espressioni popolari italiane, l’Opera dei Pupi siciliani nella selezione dei Patrimoni orali e immateriali dell’umanità; riteniamo che anche questa ricca e ineguagliabile raccolta di fiabe, ora finalmente consegnate al grande pubblico di lettori italiani, possa a buon titolo aspirare ad ottenere al più presto lo stesso doveroso riconoscimento.
Giuseppe Maggiore
GIUSEPPE PITRE’ – CENNI BIOGRAFICI
Giuseppe Pitrè, ancora studente di medicina, pubblicò nel 1864 il volume
Profili biografici contemporanei oltre a vari articoli bibliografici di vario genere, collaborando attivamente anche alla
Civiltà italiana di A. De Gubernatis. Nel 1869 aveva fondato la rivista letteraria
Nuove effemeridi siciliane, cui seguì, nel 1882, quella che fino al 1907 sarebbe stata la più importante rivista italiana dell’epoca l’
Archivio per lo studio delle tradizioni popolari, grazie alla quale entrò in contatto con alcuni tra i più illustri folkloristi d’Europa e degli
Stati Uniti. Parallelamente alla direzione dell’
Archivio pubblicò la collana in sedici volumi
Curiosità popolari tradizionali (1885-90), con la quale si estende a varie regioni italiane l’indagine sugli usi e costumi popolari. Nel 1894 P. pubblicò la Bibliografia delle tradizioni popolari d’Italia, premiata dalla Reale accademia delle scienze di Torino, di cui un secondo volume, rimasto in manoscritto, contiene una bibliografia completa fino al 1916. Nel 1909 fondò a Palermo il primo museo del folklore (il Museo etnografico siciliano), dove raccolse tutti quei simboli rappresentativi della cultura popolare (arnesi, costumi, ceramiche, stampe e manufatti vari), che oggi ha due prestigiose sedi (una alla Casina Cinese nel Parco della Favorita e l’altra nello storico Palazzo Tarallo di Ferla), con annessa biblioteca dove tra l’altro sono custoditi tutti i suoi carteggi manoscritti e le oltre settemila lettere di corrispondenza con i tanti illustri studiosi dell’epoca; materiali, questi, che testimoniano l’alta competenza acquisita nello studio e nell’interpretazione delle tradizioni folkloriche di altri paesi. Nel 1910, su proposta di Giovanni Gentile, l’Università di Palermo istituì, affidandogliela, la prima cattedra di Demopsicologia, disciplina di cui è il riconosciuto fondatore. Il lavoro da lui svolto in pieno clima post-risorgimentale si inseriva in una corrente di studi demologici e di novellistica comparata, tendente a fornire una lettura più d’ampio respiro della favolistica siciliana, fino allora troppo sicilianista e autonomistica, una lettura che aderiva pienamente alle teorie generali sulle origini e la diffusione delle storie popolari cui erano pervenuti i più importanti studi dell’epoca, individuando e fornendo analogie e comparazioni con altre storie narrate presso altri popoli. Il suo metodo di ricerca e di catalogazione ha tracciato la via ad altri come Salvatore Salomone Marino ed è stato d’ispirazione sia a Luigi Capuana, che nel suo repertorio trovò materiale per le proprie fiabe, sia a Giovanni Verga, il quale trasse ispirazione per le tinte schiette e le particolari usanze che ritroviamo nel suo mondo di umili, nonché che per alcune novelle come
Guerra di Santi. Per i suoi meriti e la sua fama nel 1914 fu nominato Senatore del Regno, quando anche in America venivano tradotte e pubblicate le sue opere, specialmente i proverbi e le fiabe, la cui radice comune a tanti popoli egli aveva esaltato.
Cover Amedit n° 17 – Dicembre 2013. “Ephebus dolorosus” by Iano
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Questo articolo è stato pubblicato sulla versione cartacea di Amedit n. 17 – Dicembre 2013
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