“Stormo” di María Julia Díaz Garrido e David Daniel Álvarez Hernández, Kalandraka

Da Federicapizzi @LibriMarmellata

Quando si pensa agli uccelli li si associa automaticamente ad immagini legate al volo, al canto, alla libertà, perfino ai colori, alla gaiezza, alla lievità.
Un uccello in gabbia rattrista, racconta della privazione di un istinto e una capacità naturali: il librarsi in aria senza limiti fisici imposti. E’, tra le forme di cattività che imponiamo alle bestie, una di quelle sulla quale più facilmente agisce l’immaginario: un uccello cui si impedisce il volo perde molta della sua identità e quindi della sua felicità, se tale emozione può riferirsi – come credo – anche agli animali.

Ciò premesso, è facile figurarsi con quale turbamento ci si possa trovare a sfogliare le grandi pagine – così piacevoli al tatto, con la loro ruvida consistenza e pregiata fattura – di “Stormo”, albo di María Julia Díaz Garrido e David Daniel Álvarez Hernández, pubblicato dalla casa editrice Kalandraka e vincitore, nel 2012, della V edizione del Premio Internazionale Compostela per albi illustrati (altro vincitore del medesimo riconoscimento è “La mamma” di Mariana Ruiz Johnson, sempre pubblicato da Kalandraka).

Un’opera potente e impressiva, insolita e raffinata, poggiata su metafore eloquenti le quali, con poche pennellate decise, svelano e denunciano, affidando ad una significativa conclusione il barlume di una speranza.

Se ci si fosse illusi di accedere a “Stormo” con leggerezza e spensieratezza, già la prima tavola richiama il lettore a restare ancorato alla forza di emozioni dense, con echi di cupezza e promesse di profondità.
Il volative che vediamo appollaiato su un ramo – spoglio, freddo e desolato – ha poco della lievità e della freschezza propria della specie. E’ invece pingue, abbigliato con calzoni e scarpe di fattura umana, mesto sul muso e, soprattutto, non possiede ali. Queste sono sostituite da braccia pennute, tristemente poggiate, le quali, più che della possibilità del fare, parlano della scelta, prossima o già avvenuta, della resa.

Ancora, notiamo subito che la scelta cromatica dell’illustratore è molto precisa: bianchi e neri sfumati a carboncino nelle varie tonalità del grigio. Le figure si stagliano su sfondi che, pur se chiari, risultano sempre sporchi, come a suggerire un’atmosfera che, quando non è   carica di nuvole minacciose e scure, resta comunque plumbea, cinerea, opaca. Non pare ci sia posto per la clemenza del sole.

Ma torniamo al filo della narrazione. L’incipit del testo dichiara che gli uccelli – o almeno questi strani, melanconici pennuti antropomorfi – immaginarono un giorno un vita diversa e diedero così avvio ad una nuova era.

Il lettore che non avesse avuto l’accortezza di cogliere i segni della prima pagina, potrebbe a questo punto credere in una promessa: che il popolo dei volatili voglia accedere ad un tempo migliore.
Quasi così parrebbe, ed infatti voltando pagina si trova un grosso gufo intento ad insegnare ai piccoli, con tanto di modellino astronomico realizzato con uova di diverse dimensioni, il funzionamento del mondo intorno.

Nessuna illusione confermata: mentre andando avanti il testo ci racconta della costruzione di magnifici nidi, le figure si mostrano, per contrasto, eloquenti e per nulla incoraggianti: un bosco fitto e scuro di alberi ai quali sono appese inquietanti, per quanto eleganti e decorate, gabbie.

Gli uccelli sembrano oramai precipitati in una spirale di aspirazioni a fallaci migliorie, tra le quali, perfino, la costruzione di macchine volanti sulle quali essi – esseri che dovrebbero per razza essere dotati di ali– siedono panciuti, sempre vestiti con eleganti giacche, gilet e camicie con jabot.

Gli eccessi sono dietro l’angolo e di certo non ci suonano estranei: ricerca della comodità, smanie estetiche, crimini contro la natura e le altre specie, guerre, sovraffollamento… Credere di potere fa desiderare, e perseguire, l’impossibile.

La penultima tavola è desolante: sotto un cielo nuvoloso e carico, tra piante spoglie e su un terreno arso e privo di vegetazione, gli uccelli si trascinano con i loro ombrelli e paiono sempre più spenti.

E’ la fine di ogni speranza? Al lettore accorato l’ultima doppia pagina regala un barlume che è come una carezza. “C’è ancora chi desidera aprire le ali e imparare a volare”. E non a caso sono i cuccioli, i piccoli che, se supportati e incoraggiati da genitori fiduciosi e memori, possono recuperare un istinto naturale ma in apparenza dimenticato.

Credo che il messaggio dell’albo sia chiaro e cristallino, quindi non mi soffermerei troppo ad evidenziare le risonanze e i rimandi al rapporto tra uomo e natura.
Ciò che mi interessa, invece, sottolineare è l’efficacia e la potenza della metafora scelta: quella degli uccelli che hanno smarrito, non solo la capacità, ma anche la consapevolezza di saper volare.
Il volo degli uccelli può significare, se riferito alla razza umana, il sogno, l’esercizio della fantasia. Ma anche i propri istinti naturali, le proprie peculiarità.

Ecco quindi che, trasponendo dal piano dell’immagine a quello del senso, gli uccelli che non volano più sono uomini e donne che non possiedono più la coscienza della propria appartenenza al mondo naturale. Ma non soltanto: hanno perso una parte della propria identità, hanno dimenticato di possedere un dono che li rende unici e speciali e, di conseguenza, si affannano a ricercarne radice fittizia e deformata altrove.

Un libro, questo, che pare disperato e sconsolato e invece contiene un incoraggiamento e un augurio.
Da un lato mostra senza alcuna clemenza gli effetti degli eccessi e degli abusi umani, dall’altro però ricorda ai lettori – piccoli o grandi che siano – che non è necessario smaniare ed affannarsi, rovinando finanche il mondo intorno, perché esiste per la specie umana un posto nella natura, uno spazio autentico e vitale, un luogo di riconciliazione e scoperta di sé che non produce distruzione ma armonia, non fa cadere, grassi e pesanti, in terra, ma permette di librarsi in cielo, liberi, leggeri e felici come uccelli.

Le spettacolari tavole che conducono, assieme al testo coinciso e asciutto, la narrazione appaiono impressive, intense e poderose al primo sguardo d’insieme. Pregiate, finissime e precise nella fattura ma anche emozionanti, dolenti.
Ogni immagine lascia spazio ad un indugio che, mentre si sofferma sul dettaglio e il curatissimo tratto, raccoglie sensazioni che colmano di senso il racconto.
Così anche gli abiti, la pinguedine di ogni volatile, gli ombrelli, le caratteristiche degli scenari…tutto gioca a contrasto o a supporto, conducendo una meta-narrazione che amplia la descrizione di un luogo immaginario triste, colmo di solitudine, dove vivere è tutt’altro che un piacere. Come non desiderare di prenderne le distanze?

(L’età di riferimento stavolta non la indicherò, ritengo sia un albo difficilmente inquadrabile in limiti ma nemmeno relegabile alla sola fascia adulta di destinazione. Sicuramente non indicato per i piccoli; se proposto ai bambini è consigliata, comunque, la mediazione del genitore)

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