Stracotto

Da Aquilanonvedente

Non so per quale motivo mi sia venuto in mente lo stracotto.

Sarà perché lo stomaco inizia a brontolare per la fame, oppure per quello strano desiderio di ripercorrere nella memoria alcune tappe della propria vita?

Io me lo ricordo bene quel piatto, che si consumava nelle occasioni veramente speciali (e il Natale era una di queste).

Mi ricordo le ore di cottura nel tegame di coccio, coperto da un piatto nel quale mia madre versava il vino rosso, che evaporava e riempiva la casa di profumi.

Mi ricordo quella carne che si scioglieva in bocca.

Mi ricordo quel sugo denso nel quale si intingeva il pane e che ti ungeva il gargarozzo, se qualche goccia scivolava giù.

Mi ricordo quando un mestolo di stracotto veniva posato su un letto di polenta fumante e la speranza che quel piatto non finisse mai.

Alcuni lo stracotto lo mettevano nel ripieno degli agnolotti; altri lo usavano come sugo per gli agnolotti stessi, ma in casa mia veniva consumato come secondo, con o senza polenta.

Lo stracotto significava festa; spesso significava ospiti; sempre significava “ricchezza”, ma quella ricchezza che non coincideva con il denaro, ma con la tranquillità e la fiducia nel futuro.

Eh sì, mi ricordo bene lo stracotto, ma soprattutto mi ricordo le persone che stavano intorno al tavolo insieme a me e a quanto mi manchino ancora adesso.

E’ una parte del mio passato, che conservo gelosamente e qualche volta spunta fuori, in attacchi di spudorata nostalgia come questo.

Che servono non per piangersi addosso, ma per andare avanti.

Perché avanti bisogna andare.

Perché c’è sempre qualcuno che ce lo chiede, seduto al nostro tavolo.



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