La prima questione riguarda la segnalazione fatta nel 2011 dal Fsb (l’intelligence russa) all’Fbi, riguardo al viaggio compiuto da Tamerlan Tsarnaev nel Caucaso russo, poichè alla Lubjanka sospettavano già allora che l’uomo essere legato alle milizie jihadiste caucasiche. Ma al suo rientro negli Usa, dopo averlo sottoposto a un breve fermo per interrogarlo, l’Fbi decise di non muovere alcuna incriminazione nei suoi confronti, non rilevando alcun reato nel suo comportamento. Eppure, i servizi russi avevano fornito ai loro colleghi statunitensi precise informazioni sui possibili contatti con miliziani di Al Qaeda, che sarebbero confermati dal fatto che Tamerlan, dopo essere rientrato dalla Russia, non avrebbe mai nascosto la sua ammirazione per le milizie islamiche caucasiche, inneggiando pubblicamente alla guerra santa anche sui social network. Nonostante tutto questo, quando a Boston sono partite le indagini, il nome di Tamerlan Tsarnaev non figurava tra quelli dei sospettati.
Per Debkafile, si è trattato di un deliberato tentativo di insabbiamento, reiterato fino al 19 aprile (quattro giorni dopo l’attentato), quando la polizia ha diffuso le prime immagini di due anonimi sospetti riprese da una telecamera di sorveglianza: anche in questo caso, non c’è stato il benchè minimo riferimento al fatto che i due potessero essere i Tsarnaev, sebbene a Pennsylvania Avenue li conoscessero perfettamente. Poi, la svolta: senza che vi fosse un motivo apparente, i due si rifugiano al MIT (il Massachussets Institute of Technology), dove avviene lo scontro a fuoco con la polizia, nel quale muore Tamerlan e il fratello minore Dzhokar rimane ferito ma riesce a scappare. A questo punto, l’identità dei due non può più essere tenuta nascosta. E com’era prevedibile, fioccano le domande: chi erano questi due ceceni e cosa ci facevano in America?
E iniziano a saltare fuori le prime incongruenze, come quella riguardante l’ammissione di Dzhokar Tsarnaev, con tanto di borsa di studio da 2500 dollari, all’esclusivo American International College di Cambridge (Massachussets), che sarebbe avvenuta senza che il giovane ceceno venisse sottoposto ad alcun test selettivo: secondo Debkafile, che cita fonti del Mossad, l’ingresso del giovane Dzhokar al College sarebbe parte del “pagamento” contrattato dal fratello Tamerlan al momento del reclutamento da parte dell’Fbi.
I fratelli Tsarnaev sarebbero dunque – in base alle fonti citate da Depkafile – due membri di Al Qaeda, con il compito preciso di importare negli Stati Uniti il terrorismo di matrice wahabita. Due pedine di un intreccio con ramificazioni che partono dal Caucaso russo e finiscono in Arabia Saudita, nazione formalmente alleata degli Usa ma spesso fin troppo ambigua nei confronti dei movimenti legati al fondamentalismo islamico.
Non è un mistero che, nel corso degli ultimi dieci anni, canali informali legati al governo saudita abbiano fatto giungere nelle repubbliche caucasiche russe (Daghestan, Inguscezia, Ossezia del Nord, Karacevo-Cerkassija, Kabardino-Balkaria e appunto Cecenia) un enorme quantitativo di denaro, che hanno permesso la costruzione di scuole coraniche e moschee dove si predica l’Islam più radicale. Azioni mirate a creare influenza in un’area geopolitica di estrema importanza per il governo di Riyad. Basti solo pensare all’enorme giacimento di petrolio e di idrocarburi che si trova nei fondali del Mar Caspio, sul quale si affaccia il Daghestan: secondo uno studio sviluppato nel 2007 dell’Amministrazione USA, il Mar Caspio nel 2015 potrebbe raggiungere una produzione giornaliera di greggio pari a 4,3 milioni di barili, con riserve petrolifere che toccherebbero i 235 miliardi di barili, equivalenti ad un quarto di quelle dell’intero Medio-Oriente. Una vera e propria miniera di “oro nero”, a cui vanno aggiunte le enormi riserve di gas ancora da sfruttare, che, insieme a quelle già in uso, andrebbero a costituire nel sottosuolo del bacino una riserva pari ad oltre 9,2 trilioni di metri cubi di gas.
Proprio perchè questi comportamenti erano ben noti alla Cia, anche il governo saudita dal momento dell’attentato avrebbe adottato comportamenti alquanto anomali, dettati – secondo Depkafile -da una preoccupazione tipica di chi vede cadere su di sè un sospetto e cerca di sviare le attenzioni rivoltegli. Tanto che, dopo che il consolato dell’Arabia Saudita a Boston aveva informato Riyad che uno studente arabo interrogato dalla polizia in ospedale, dove si era recato per farsi medicare delle ferite da esplosivo alle mani, il 17 aprile (ovvero due giorni dopo l’attentato) il principe al-Faisal, ministro degli Esteri saudita, è volato preciptiosamente a Washinhton per un incontro privato d’urgenza con Barack Obama e il suo Consigliere per la sicurezza nazionale Tom Donilon. Oggetto del vertice, la gestione della pista saudita alla strage.
E quel giorno, con un tempismo troppo perfetto per non destar sospetti, tv e giornali sauditi hanno lanciato una tre-giorni mediatica contro il terrorismo, che ha visto succedersi in una serie di appelli e prese di distanze dalla jihad figure religiose ed esponenti della monarchia saudita, che hanno rimarcato la totale incompatibilità tra la religione saudita e l’esplosione di Boston.
La motivazione e i mandanti della strage al momento non si conoscono, come pure è ignoto il momento in cui i due ragazzi sono stati “rigirati” contro gli Usa. In conclusione, secondo il sito israeliano, dietro la strage ci sarebbe una clamorosa falla nella sicurezza nazionale americana, incapace di accorgersi che due sue pedine erano finite nelle mani del nemico che avrebbero dovuto distruggere.