E così, è giunta al termine la triste vicenda dell’uomo che per giorni ha, per sua stessa presunta ammissione, “messo la Francia in ginocchio”. Dopo 30 ore di assedio, Mohamed Merah, il franco-algerino presunto autore della serie di delitti che hanno sconvolto Montauban, Tolosa, e il resto del mondo, è caduto sotto i colpi delle teste di cuoio francesi, che alle 11.27 di questa mattina hanno fatto irruzione nell’appartamento dove il giovane si era barricato, dicono, armato fino ai denti. Le circostanze della morte del mostro, come spesso accade, sono avvolte da una sottile foschia. La stessa sottile foschia che da ore avvolge i contorni più ampi di una vicenda al limite dell’assurdo, tragica, e piena di incongruenze.
«In questi casi, di primo acchito, si cerca una spiegazione rassicurante: è un folle. Forse sarà anche un folle e se verrà catturato ce lo dirà la perizia psichiatrica ma, verosimilmente, è prima di tutto un antisemita, un islamofobo, un razzista, un sostenitore della supremazia della razza bianca ariana. Il suo delirio si è abbeverato a quella cloaca pestilenziale dell’armamentario ideologico del nazifascismo che circola incontrastato sulla rete e non solo».
Non da meno Alessandro Portelli, su Il Manifesto dello stesso giorno:
«E la mano che ha ucciso il rabbino e i tre bambini a Tolosa è probabilmente la stessa – forse quella di un ex militare neonazista – che ha ucciso in questi stessi giorni tre soldati, neri e musulmani, colpevoli di indossare e quindi contaminare la preziosa uniforme della patria francese. La paranoia razzista è ossessionata dall’idea della purezza, dell’identità immutabile e assoluta. L’antropologa Mary Douglas parlava dell’ossessione dell’ “impurità” come “materia fuori posto”, e materia fuori posto sembrano oggi i migranti in Europa, e da sempre gli ebrei».
Ora, a proposito di “materie fuori posto”, occorre fare una considerazione. Appurando la presumibile onestà intellettuale di Ovadia e di Portelli, e concedendogli varie attenuanti, tra le quali l’allora sconosciuta identità del serial killer e l’assoluta (quella sì, disonesta) imprecisione con cui i principali organi di stampa hanno diffuso la notizia, si può facilmente dedurre come l’assolutizzare il particolare è arte ben diffusa nei corridoi del grande palazzo dell’opinione pubblica, la stessa opinione pubblica che è principale motore di impulsi, tendenze, coscienze, e che si arma e si nutre della divulgazione a mezzo stampa, divenuta arma sempre più contundente, forgiata per lacerare, per strappare, per buttare benzina sul fuoco con abiti da pompiere.Questa, assieme ad altre, può considerarsi una forma di vera e propria strategia militare, chiamata “Infowar”, o più comunemente Guerra Psicologica. Questa nuova forma di conflitto, apparentemente incruenta, fu introdotta già all’epoca del secondo conflitto mondiale.
Come scrisse Ernest R. Hilgard, noto psicologo statunitense:
«Durante la seconda guerra mondiale grande era l’interesse verso ciò che fu inizialmente chiamato ingegneria umana, ora noto come ricerca sui fattori umani in rapporto al lavoro delle macchine. Il processo di automazione e il perfezionamento dell’attrezzatura militare rendono sempre più necessaria una capacità di accurata discriminazione da parte degli operatori umani. Un operatore raccoglie segnali visivi sullo schermo radar e distingue i segnali acustici dei dispositivi che amplificano i suoni subacquei. Il pilota deve tenere d’occhio i quadranti dei suoi innumerevoli strumenti e comportarsi di conseguenza. Le istruzioni ricevute in cuffia devono essere distinte sul frastuono circostante e, talvolta, nonostante interferenze intenzionali. Dopo la guerra, la psicologia degli organi di senso trovò nuove utilizzazioni nell’industria oltre che nei servizi militari e, naturalmente, in rapporto ai problemi dell’era dei missili e dei satelliti».
Insomma, esiste una branchia della strategia militare che non è strategia militare. In fondo, come da definizione enciclopedica, consiste ne «l’uso pianificato della propaganda ed altre azioni psicologiche allo scopo principale di influenzare opinioni, emozioni, atteggiamenti e comportamento di gruppi ostili in modo tale da favorire il raggiungimento degli obiettivi nazionali».
Di seguito è riportato uno stralcio di Massimo Chiais, docente di scienze strategiche, giornalista e scrittore di saggi sulle strategie della comunicazione, che così descrive il tutto:
«[…]anche fuori dalla speculazione filosofica o metafisica, fermarsi a riflettere sul ruolo della falsità e dell’inganno nella società contemporanea, può avere ben più che il significato di un “gioco” intellettuale, tanto più intricato quanto più avvincente. Perché, proprio di fronte al martellante bombardamento di notizie che non abbandona l’uomo moderno nell’arco della sua vita intera, diventa lecito domandarsi quante di queste informazioni corrispondano alla realtà, e quante, al contrario, si basino sulla falsificazione, sulla mistificazione del reale. O, più ancora, su deliberate strategie di disinformazione, messe in atto al solo scopo di manipolare la realtà per produrre una diversa percezione degli avvenimenti presso l’opinione pubblica. D’altra parte, cosa ne sa la “massaia di Voghera” di quello che avviene in Pakistan o sulle coste della California, alla riunione dei paesi più industrializzati del mondo o nelle prigioni di un’isola caraibica? Né più né meno di quanto i media, e chi li controlla, vogliono che lei sappia.
Così, sebbene sia vero che l’opinione pubblica vive di informazione, è pure vero che questa informazione si presta a un’infinita molteplicità di fattori in grado di trasformarla, ridurla, amplificarla, “infiorettarla”, demonizzarla e così via […] fino a trasformare la realtà di ciò che accade in un’altra realtà, completamente diversa, alcune volte addirittura antitetica. E, se spesso accade che questa trasformazione non sia altro che il naturale processo di cambiamento di una notizia che passa di bocca in bocca, e in questo trasferimento si modifica a causa dei trasmettitori, molto più spesso a incidere sulla realtà sono ben altri meccanismi. Meccanismi che parlano la lingua della propaganda e della disinformazione, che sanno bene quali stratagemmi linguistici o iconici utilizzare per incidere sull’emotività e sulle percezioni dell’opinione pubblica, in modo tale da determinarne reazioni funzionali al raggiungimento dei propri obiettivi. Ma ancora di più, meccanismi in grado di influenzare in modo così profondo la percezione della realtà, da trasformare in realtà la menzogna stessa, fino alla realizzazione di vere e proprie operazioni di ingegneria storica, tali da immortalare il falso per vero, trasferendo ai posteri una visione “storicamente modificata” degli eventi».
E poi, ancora:
«La demonizzazione dell’avversario è una delle leve fondamentali della propaganda politica, vecchia come il mondo e mai fuori moda. Perché l’avversario gentile, umano, cavalleresco nel suo agire all’interno di schemi e dinamiche condivise dalla tenzone e dal buon senso, può diventare simpatico, può persino spingersi ad avere ragione: magari non “tutta la ragione”, ma almeno un poco, instillando così un legittimo dubbio nel sentire collettivo. L’immagine opposta, quella che lo vede vestire i panni del Male Assoluto, genera disprezzo, odio, allontanamento e, per conseguenza, un avvicinamento emotivo a chi si dice disposto a combatterlo».
Il pensiero, dunque, quando diventa pappardella condivisa da leggere a memoria, quando corre su binari già predefiniti, è arma pericolosissima, è morbo tremendamente infetto, è mutevole e mimetico. Tanto mimetico, da spostare ogni attenzione sul terrorismo islamico e sullo scontro tra religioni, non appena è trapelata l’identità dell’attentatore. Non un neonazista ariano, ma un franco-algerino. Non un islamofobo, ma un combattente della jihad. Insomma, le carte in tavola vengono cambiate, anche se sembrerebbe che i più non se ne accorgano quasi mai. Il serpeggiante neonazismo è d’improvviso accantonato, in favore della paludosa (e diciamocelo, un po’ stancante) questione di Al Quaeda e del terrorismo islamico (Al Quaeda, questa organizzazione che non organizza un bel niente, ma che si limita a “griffare” organizzazioni autogestite come quelle di Merah).
Quel che non cambia è di certo l’annosa questione sull’odio, in particolar modo verso gli ebrei, non più radicato in presunte e impolverate nostalgie hitleriane, bensì in una versione più fresca e al passo coi tempi, quella appunto della questione mediorientale. Ciò che più sorprende è che, in questo passaggio, le analisi e i commenti si spostino con disinvoltura da un argomento all’altro senza curarsi di abbandonare preziosi elementi per strada, come il fatto che le prime vittime di Merah fossero sì militari, ma di origini maghrebine. Dettagli minuziosamente raccontati, altri dettagli volutamente o incoscientemente ignorati dalla stampa. Stampa che, a dire il vero, non ha approfondito più di tanto la questione, preferendo incollarsi a quello che forse è stato il passaggio più atroce della rampante carriera del mostro: «Volevo vendicare i bimbi palestinesi, – così avrebbe dichiarato il killer, durante il lungo assedio – e punire la Francia per i suoi interventi militari».Marine Le Pen, Front National
D’improvviso, è parso evidente che la strategia dei media abbia preferito far leva più sul fatto che quei bimbi fossero ebrei, invece di analizzare a fondo la vita di quest’uomo, invece di raccontare, con il solito latrato da sciacallo, l’ennesima triste fine riservata a innocenti che pagano gli sporchi giochi degli adulti. Quei bambini, in sostanza, sono sempre stati più “ebrei” che bambini, più non-persone che persone, seguendo una logica non certo razziale, ma di marketing al gusto di sangue, che pochissimo si discosta dalle atrocità jihadiste. Dunque, molta confusione. Eppure già fioccavano i paragoni con Casseri e la tragedia senegalese di Firenze, eppure la becera equazione “ebrei – militari negri” pareva proprio funzionare alla perfezione. Nessuno, ad esempio, che abbia indagato sul movente che potesse spingere un franco-algerino ad immedesimarsi così tanto nella causa mediorientale (e pensare che in mezzo c’era pure l’anniversario del ritiro di De Gaulle dall’Algeria, 19 marzo 1962). Insomma, dopo la parentesi nazista, si sfocia nell’universo a noi più conosciuto, quello del terrorismo islamico che colpisce a casa tua, nella democratica Europa. Quello che viene a punirti, quello che ti toglie il lavoro, quello che ti ruba la ragazza, quello che ti destabilizza come una deflagrazione a ciel sereno.
Come a Londra, in quel luglio, come alla stazione Atocha di Madrid, in quell’11 marzo. Soffermandosi soprattutto su quest’ultimo caso, ci si accorge che le coincidenze sembrano essere più d’una: oltre alle matrici islamiche, oltre agli iniziali sbandamenti dell’indice accusatore (allora fu additata l’ETA), c’è la similitudine del periodo pre-elettorale. Otto anni fa, quel rigurgito estremista fece saltare, assieme a qualche carrozza, anche il governo Aznar, favorendo la rapida ascesa di quel Zapatero, vera e propria icona del progressismo made in Italy, fino alla prematura sepoltura di José Luis sotto le ceneri della crisi economica. In questo caso, tornando in Francia e nell’anno 2012, siamo alla vigilia del rush finale verso l’Eliseo, con Sarkozy e Hollande pronti a duellare sotto gli equilibri sconvolti, in una situazione che non è più quella di qualche giorno fa, e con Marine Le Pen, leader del Front National, pronta ad approfittare della situazione:«Si è minimizzata la crescita dell’Islam radicale nel nostro paese (…) Dei gruppi politico-religiosi si sviluppano a causa di un certo lassismo. Ora bisogna condurre questa guerra contro dei gruppi fondamentalisti che uccidono i nostri bambini, i nostri ragazzi cristiani, i nostri ragazzi musulmani ed i bambini ebrei, come due giorni fa».
Nicolas Sarkozy
Insomma, potremmo chiamarlo “terrorismo da campagna elettorale”? In altre epoche, qualcuno osava adottare la nomenclatura cupa: “strategia della tensione”. Preferiamo però restare più cauti, evitare frettolose deduzioni, e rimanere comunque nel campo delle intuizioni. Certo, nell’immaginario occidentale, poco cambia tra un neonazista, un pakistano, o un algerino. Il nemico, quando è nemico, non ha sfumature: è roba netta, come scrive Chiais. Il nemico, nell’immaginario, non viene mai fatto prigioniero. O vive, e ci minaccia, o muore. Il problema resta sempre lo stesso: se proprio un nemico ci dev’essere, almeno bisognerebbe imparare a riconoscerlo, prima o poi. Possibilmente, diffidando dalle proiezioni.
(Pubblicato su “Il Fondo Magazine” del 22 marzo 2012)