Magazine Cultura
Erano passati nove mesi. Nove mesi agitati, fatti di voli pindarici e conditi da troppa indecisione. Michela ricordava perfettamente la sera in cui Luca si inginocchiò davanti a lei, così come la tradizione annoverava tra i suoi comandamenti, e aprì una piccola scatola di raso blu. La sua incertezza non riguardava la risposta da dargli: sapeva benissimo che la vita che stava vivendo era la sua unica possibilità e che quella via era la sola che poteva prendere. La sua esitazione era legata ad altro, a un segreto di cui aveva smesso di vergognarsi.
La data stabilita era arrivata e la notte precedente lei non dormì. La passò a leggere, un po’ come fosse un film e quei mesi trascorsi fossero quelli dell’ultimo anno di liceo.
Alle otto di sera cenò, con una scusa banale salutò suo padre e si rintanò nella stanza dove aveva trascorso tutta la sua adolescenza, tutti i pomeriggi degli anni di università e tutti i sei anni seguenti, quelli in cui non riuscì a trovare un lavoro decente. Rifugiò la faccia nel cuscino e poi, abbracciandolo, si sedette vicino alla finestra. Vide salire la luna e ne seguì il movimento guardandola oltre la finestra, come se si trattasse di una luminosa clessidra che scandiva la sua libertà e il tempo che impiegò a rileggere le lettere dell’uomo che chiamava Amore. Alle sei si sedette sul bordo del letto e nascose le lettere tra le doghe di legno e il materasso. Si alzò e andò in cucina per preparare la colazione. Salutò la luna che le aveva tenuto compagnia e notò quanto essa sembrasse opaca, come sciupata per un turno di lavoro estenuante. Si versò un bicchiere d’acqua e si strofinò il bordo del pigiama sugli occhiali per pulirli un po’. Il suo telefono suonò e lei corse a prenderlo implorando che nessuno in casa si svegliasse. Lesse il nome e premette forte lo schermo per rispondere. «Ho pregato perché mi chiamassi. Tu non hai idea di quanto ho pregato mi chiamassi…» «Ero sicuro di trovarti sveglia. Non hai dormito, vero?» «No. Ho letto. Avrò gli occhi gonfissimi.» «Sarai bellissima, non ho dubbi.» Smisero di parlare per qualche istante. Tutto era già stato detto troppe volte e ogni silenzio assumeva il significato di parole mai pronunciate e di cui, in ogni caso, entrambi sentivano di essere già a conoscenza. Il silenzio venne interrotto dal rumore della moka, del gorgoglio del caffè che usciva dal camino e dei passi di lei verso il fornello. «Ci sarai?» chiese lei, sapendo che l’avrebbe capita come sempre. «Quasi quasi salto la celebrazione e vado subito in ristorante…» e rise piano, con un tono d’amarezza di cui lei conosceva la natura. «Ci sarai?» ripeté. «Sempre.» Dal piano di sopra arrivarono dei rumori. «Credo si sia svegliato mio padre. O forse è zia Emma.» abbassò un po’ il telefono e trattenne il respiro come se servisse a sentire meglio. Dal piano di sopra i passi ciabattanti di suo padre si fecero più evidenti. «Devo andare. Io…» «Ci vediamo dopo.» Suo padre entrò in cucina mentre lei poggiava il telefono vicino al lavello e versava il caffè in due vecchie tazze azzurre. Una era scheggiata sul bordo, lo era da anni, ma nessuno dei due si era mai sentito in dovere di buttarla via. «Buongiorno tesoro.» le posò una mano sulla spalla e le diede un bacio sulla tempia. «Mi sa che di caffè possiamo metterne su subito dell’altro, ho sentito la sveglia di zia Emma e sono sicuro che scenderà già con tailleur addosso. Hai dormito bene?» «Sì papà.» «Sei tanto nervosa?» «Ora no.» «Quanto tempo abbiamo?» Dal rumore della porta che si apriva al piano superiore, capirono che era ora di cominciare. Si guardarono dritti negli occhi, sorridendo. Lui si alzò, le toccò di nuovo la spalla e le sussurrò piano che sarebbe andato tutto bene.
La prima ad arrivare fu sua nonna. Arrivò trasportando una borsa talmente pesante che, per mantenere l’equilibrio, si era ritrovata a far ondeggiare il braccio libero come fosse un soldato durante una parata. Arrivarono le amiche, la parrucchiera e la truccatrice, tutte con un volto luminoso e la voglia di rendere Michela la più bella delle spose. Zia Emma accese la radio e, man mano che ogni cosa veniva sistemata o preparata, faceva scorrere la penna sulla sua agenda azzurra per debellare quel pensiero dal suo lungo elenco. «Ma guardati! Sembri una principessa. Sei tanto bella che mi viene da piangere. Quanto vorrei che tua madre fosse ancora qui per vederti…» Michela sorrise. La zia le si avvicinò sventolandosi il viso con la mano, guardando in su per tentare inutilmente di ricacciare dentro le lacrime. «Vedrai. Il tuo matrimonio sarà felice e perfetto come quello di un film. Ne sono certa.» Le prese le mani, si guardarono sorridendo e Michela si abbasso perché la zia le potesse dare un bacio. Lei a quelle cose ci credeva, anche se non avrebbe dovuto. «Su. Respiriamo a fondo e andiamo avanti. Ora vado a chiamare le tue nipoti perché la parrucchiera dia loro una sistemata e poi corro da tuo padre per controllare che si ricordi come annodare la cravatta.» Le nipoti di Luca salirono, entrambe con un candido vestito di raso che arrivava alle ginocchia, i collant bianchi e un paio di ballerine rosse, il colore che lei e il suo futuro marito avevano scelto per ogni dettaglio della giornata. Il vestito di Michela aveva una gonna voluminosa svasata verso il basso e un bustino stretto che le valorizzava le spalle, in vita portava un nastro cremisi che si chiudeva sulla schiena legato in un semplice fiocco. «Zia... sei bellissima!» «Venite qui e datemi un abbraccio! Siete le bambine più belle che io abbia mai visto.» Emma tornò nella stanza correndo e con un tono da comandante di plotone disse «Bambine, fatevi sistemare quei capelli. Bisogna che tutto sia perfetto. Ho messo in piedi un matrimonio da favola perché vostra zia possa godersi la giornata senza pensare ad altro, non potete mica arrivare in chiesa sembrando due selvagge!» Quella fu l’ultima cosa che Michela ricordò di aver sentito. I preparativi continuarono ancora un’ora e lei non aveva affatto la testa sgombra dai pensieri. Le voci e i complimenti si ammassarono uno sopra l’altro e lei continuò a ringraziare sorridendo. In realtà si sentiva come se i suoni attorno a lei fossero attenuati da qualcosa di inspiegabile, come se le sue emozioni filtrassero ogni parola altrui. Si ricordò solo un altro giorno in cui le era capitato di provare una sensazione simile, e non si trattava affatto di un giorno bello come doveva essere quello. Il giorno del funerale di sua madre, quando lei e suo padre uscirono dalla chiesa e tutti si accostavano a loro ripetendo le stesse identiche parole. La sensazione era quella: quando stai talmente male da volerti chiudere nel tuo dolore il tuo cervello trova da solo il modo di evitarti il problema. Tutto era a posto. Le auto partirono in fila indiana e imboccarono la strada principale del paese. A Michela e a suo padre era riservata una carrozza, quella che lui aveva tanto insistito per noleggiare. Arrivarono in chiesa dopo una chiacchierata che li fece commuovere entrambi e per cui si ritrovarono con gli occhi arrossati. «Se non ci diamo una sistemata Emma ci ammazza. Sono a posto, tesoro?» «Sembra che essere bellissimi sia il leitmotiv della giornata, ma in questo caso non mi viene altro in mente... sei proprio bello papà.» Quando le porte della chiesa si aprirono e la marcia iniziò a echeggiare tra le mura della basilica, Michela lo vide. Era lì, sull’altare. Le sue labbra erano serrate e i suoi occhi, come quelli degli altri, erano puntati su di lei. I fiori, i vestiti, i sorrisi e le persone sembravano non avere più importanza. C’erano solo loro. Arrivò all'altare e Luca le porse la mano, si sedettero e la cerimonia iniziò. Michela coglieva ogni occasione per guardare negli occhi il suo amato.
Giunse il momento del bacio e tutti applaudirono. Tutto come da copione. Gli sposi entrarono in auto dopo le foto di rito con testimoni e gruppi di parenti e tutti partirono verso il ristorante. «Sei felice?» «Sì. Sono solo un po’ preoccupata che tutti trovino il ristorante. Zia ti ha dato la mia pochette? Voglio controllare di non aver ricevuto messaggi con richieste di aiuto.» «E poi dici di non somigliarle… sempre a preoccuparti degli eventi e degli altri.» Luca le passò la borsetta bianca e si mise a chiacchierare con uno dei suoi testimoni, il suo migliore amico, che stava guidando mentre il navigatore satellitare non riusciva a trovare la destinazione. Michela prese il telefonino e lesse l’unico messaggio che le era stato spedito.
“Oltre a essere tuo cognato ora sono pure diventato il tuo testimone. Niente di ciò ha importanza. Hai visto? Sono venuto. Ti amo come sempre. Noi siamo quasi arrivati. Ti aspetto.”
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