Mondadori *Scrittori italiani e stranieri* (2011), 258 pagine, euro 18,50
Mario Desiati è un intellettuale. Uno che non ha la smania di apparire, ma che demanda alla scrittura, alla letteratura, alle scelte editoriali (è curatore dell’antologia Best off Voi siete qui per minimum fax nel 2007 e direttore editoriale di Fandango dal 2008) il compito di informare, oltre che intrattenere.Abile narratore ed esperto conoscitore del linguaggio narrativo e degli strumenti di scrittura, costruisce storie che catturano e si insinuano, come un virus, nella mente di chi legge.
Ternitti ti si attacca addosso, come le particelle di asbesto presenti nell’eternit che hanno mietuto vittime a non finire, e non ti lascia anche dopo che hai letto perfino i ringraziamenti, pur di non lasciare una prosa così ricca, piacevole, alta, ma mai supponente; per lasciarti ancora incantare da immagini e sensazioni che solo chi conosce bene la tecnica e la volge verso l’emozione di narrare sa fare.
Ternitti è una storia sociale, sulle vittime che l’eternit ha fatto nel tempo e di cui (forse perché in pochi hanno chiesto risarcimenti o perché in fondo a nessuno conviene parlarne troppo) si sa molto poco. Ed è una storia di emigrazione, macro e micro. La protagonista, Mimì Orlando, si trova costretta a partire da Tricase (in Puglia) per trasferirsi in Svizzera. Il papà Antonio deve andare a lavorare al ternitti, la grossa fabbrica dell’amianto che ha inghiottito intere generazioni. Anche la figlia Arianna come lei emigrerà, dalla Puglia a Roma; si emanciperà dalla famiglia e dalla terra, si farà una vita altrove, ma la sua terra e un ritrovato rapporto di tenerezza e cura con la madre la pungeranno di nostalgia (Negli anni in cui era stata a Roma nel suo quartiere vociante e rumoroso, ciò che le era più mancato era proprio l’albero di cedro nel cortile. Il profumo dei germogli e il sapore appuntito e amarognolo nelle torte di sua madre).Ternitti è uno di quei libri che più di altri non andrebbe raccontato ma semplicemente letto. Di esso rimangono immagini e ricordi, profumi e sensazioni. Rimane l’idea che la nostalgia, la morte, la malinconia, la malattia possano essere raccontate in tanti modi e quello di Desiati è forse uno dei più incisivi. Non ci sono ferite, sangue, immagini cruente; ci sono le parmasie preparate con amore e dedizione dalle donne (cestini con beni di conforto per le famiglie dei defunti – Riempire un paniere vale più per i morti che per i vivi, anche se saranno loro, i vivi, a mangiare e usare i beni del cesto), la fatica emotiva e fisica degli uomini giunti ai loro ultimi istanti, consapevoli, vedendo i compagni del ternitti che prima o poi sarebbe toccato anche a loro. Un dramma, una tragedia, al pari delle leggendarie pestilenze; ma con una struggente differenza: La peste è un male democratico e puntuale, non dà scampo, la spartisci con gli alleati e coi nemici. L’asbestosi era una peste non democratica, si era presa i disgraziati che avevano lavorato con l’amianto e non i suoi padroni che ci avevano campato…Accanto alla “cronaca”, trovano spazio in maniera equilibrata le vicende private dei protagonisti, punteggiate da simboli e idee narrative che rimangono fisse nella memoria e creano un circolo narrativo perfetto. Della storia d’amore di Mimì con Ippazio, incontrato nella casa di vetro (dove risiedevano, divisi secondo la regione di provenienza, gli immigrati che lavoravano in fabbrica) rimane lo sfrigolio dei fiammiferi, del gioco che facevano da ragazzi che si trasforma in un desiderio di rivalsa, di riscatto da adulti.
Mauro Fortunato tempo fa ha scritto che Desiati mette troppa carne al fuoco. Forse è vero (la storia familiare, il dramma dell’amianto, l’emigrazione, l’amore, i simboli, la Puglia in tutta la sua forza e magia), ma in questo caso è stato un ottimo cuoco e l’ha preparata alla perfezione. Secondo me.
Adesso non rimane che leggere il libro di Nesi; visto che ha vinto lo Strega, superando fra gli altri Desiati e la Veladiano, sarà un capolavoro.