Mi ero annoverata subito tra i fortunati quel giorno che ho iniziato a lavorare come archeologa. "Di questi tempi...", si dice... Ed io, soddisfatta del mio piccolo traguardo professionale, mi alzavo ogni mattina alle 5.30 per raggiungere, attiva e recettiva, il mio luogo di lavoro. Ero pronta ad assorbire ogni informazione, ad imparare tutto ciò che poteva esserci da imparare, a mettere a frutto le mie conoscenze e le mie competenze. E ogni sera ritornavo a casa stanca, polverosa, accaldata, ma soddisfatta della giornata produttiva appena conclusa. Anche nei miei colleghi percepivo la stessa soddisfazione, la stessa sensazione di fortuna, quando entravamo ogni mattina nel cantiere e, dopo una tazza di caffè in compagnia, ciascuno si accingeva a svolgere al meglio i propri compiti. Ci sentivamo davvero tra i pochi fortunati, a volte capitava di chiedersi come mai, fra i tanti, fossimo stati scelti proprio noi per quel lavoro, per quello scavo, per quel cantiere, per quei ruoli. Fortunati, ci sentivamo. Soddisfatti, ci sentivamo. Sentivamo che stavamo veramente mettendo a frutto gli anni di fatiche e sacrifici universitari, che, comunque fosse andata nel futuro più immediato o più remoto, avremmo potuto dire di essere stati per un periodo della nostra vita dei veri archeologi da campo a lavorare sul campo. Quando, un giorno, le nostre certezze vennero incrinate da un fugace incontro.
Per la serie, le archeoavventure di Rici continuano...
*** Avvertenza: "Il racconti dell'altro Melpum" è una rubrica scherzosa.