Oggi ho pensato che l’ultima frase che risultava scritta sullo schermo quando aprivo questa pagina era “Perchè non si può vivere senza esami?”. E sono qui per puntualizzare, perchè, detta così, non mi rappresenta affatto. Non sono abbastanza sicura che sia sempre per ragioni valide ma so di mettere me stessa costantemente sotto esame, ogni giorno. Che sia giusto o meno, da questo continuo rimuginare nella mia testa sono uscite alcune delle migliori decisioni che io abbia mai preso nella mia vita – quando ho deciso di pesare attentamente le motivazioni razionali e anche quando, ben conscia dei rischi, ho capovolto il tavolo per seguire beatamente l’irrazionalità.
Ma oggi,oggi sono stufa degli esami “reali”. Dei voti. Delle scale di valutazione. Delle persone che rincorrono un numero piuttosto che un giudizio. Giudizio di cosa? Livello di conoscenza? Cultura? Intelligenza? Nessuno sa cosa implichi esattamente ottenere un 30 piuttosto di un 20, eppure è curioso osservare come siano tutti concentrati sul risultato ancora prima di aprire il primo libro da studiare. Un risultato che è sempre relativo, però, perchè ci sono 30 e 30, c’è 30 con quel prof là, che si prende a occhi chiusi, e c’è il 25 con l’altro prof, che vale come un 30, perchè lui non da mai di più. E ci sono università del nord e del sud, italiane o europee, difficili o meno, e se sei straniero allora puoi sentirti realizzato anche con un “voto basso”, perchè si sa che è tutto più difficile…
Io ho passato più di qualche anno della mia vita cercando di essere la migliore. A partire dalla stellina colorata delle elementari alla tesina sugli effetti del nucleare in 3a media, a cui avevo lavorato talmente tanto e talmente approfonditamente, che davanti alla commissione era chiaro che cercassi, che meritassi un voto. Negli anni successivi ho aperto gli occhi – un po’ alla volta, perchè non è una conclusione immediata, specie a 14 anni. Non mi limiterò a fare della retorica ed ad affermare che conosco dei diplomati col massimo dei voti che io considero mediocri nella “vita reale”. Io non voglio dire questo. Voglio dire che i voti non hanno senso. Che non sono reali. Che non c’è motivo di insegnare a rincorrere un risultato che, se tutti potessero raggiungere, verrebbe considerato immediatamente privo di valore. Non si può studiare per qualcosa, leggere per qualcosa, nello stesso modo in cui non si ragiona per. Sto male quando sento qualcuno dire “faccio questo master/certificato per trovare meglio un lavoro”. Io non studio per convincere nessuno che merito un lavoro. Io studio perchè mi fa capire, mi fa crescere, mi fa diventare qualcuno che un domani saprà che lavoro vuole fare e sarà in grado di ottenerlo con le proprie forze.
Io ho scelto di studiare Lingue anche per questo. Perchè lì è ancora più evidente, che i progressi li faccio sulla mia pelle e non sui libri, quando sono in grado di leggere, ragionare, esprimermi in una lingua straniera. Se riesco a comprendere le sfumature che esprime un giornalista straniero riguardo all’ultima vicenda politica in atto, poco mi importa, francamente, del voto che prenderò quando dovrò completare un dialogo con i verbi coniugati correttamente. E non lo so se sbaglio o meno, non ho studiato pedagogia per dire che trovo ingiusto anche che vengano valutati bambini di 6 anni, su un’intelligenza che svilupperanno quando ne avranno 15 o forse ancora più tardi. E che l’unica cosa che vedo valutata intorno a me – forse - è il potenziale di intelligenza del singolo, piuttosto che l’uso che ne fa.
Ci sarebbero così tante cose da seguire, da capire, da leggere, e noi perdiamo gran parte del nostro tempo a concentrarci su un libro, per un volto in più, per essere collocati ad un livello – per l’ennesima volta, in una società in cui siamo sempre in una scala – e sentirci finalmente sicuri di noi stessi, di quello che possiamo fare. A mio parere, impiegare il tempo a perfezionare il mio CV non è quello che voglio fare.
E fatalità, la lista di verbi irregolari tedeschi che studio da più di una settimana, ancora si mescola e si annebbia tranquillamente nella mia testa, mentre sono assolutamente certa che stasera ricorderò ancora che la tavola si apparecchia con messer e teller e la differenza fra schauen e zuschauen - che David mi ha spiegato, una sola volta, la settimana scorsa.