Stuprate e uccise a 7 e 10 anni: Trent’anni di misteri #25novembre

Da Marypinagiuliaalessiafabiana

Il 3 luglio 1983 vengono trovati due corpicini seviziati  e carbonizzati lungo un canalone del quartiere Ponticelli di Napoli. Quei piccoli corpi appartenevano a Nunzia Munisi, 10 anni, e a Barbara Sellini, 7 anni, stuprate, massacrate di botte, uccise e date alle fiamme per far perdere ogni traccia.

Le due bambine erano scomparse dal giorno prima e la loro assenza era stata denunciata alla questura di Napoli. Le indagini degli inquirenti arrivano a dei ragazzi: Giuseppe e Salvatore La Rocca, di 18 e 21 anni, Luigi Schiavo, di 21 e Ciro Imperante, di 18. Il primo, il terzo ed il quarto sono accusati del duplice omicidio, mentre il secondo, Salvatore La Rocca, di occultamento di cadavere in concorso con gli altri. Tutti però si dichiarano innocenti. Poi il processo si annacqua e la procura di Napoli chiude il caso. I ragazzi vengono tutti scarcerati, per decorrenza dei termini di custodia cautelare ma devono pagare una cauzione di 15 milioni di lire ciascuno. Ai tre i giudici hanno imposto il soggiorno obbligato in tre comuni diversi del salernitano.

Il processo nei confronti dei tre presunti responsabili del duplice omicidio s riapre nel 17 marzo del 1986. Il pm Giovanbattista Vignola contesta un’ aggravante: “ratto ai fini di libidine, violenza carnale, omicidio e occultamento di cadavere”. Ma davanti ai giudici della prima sezione della corte di Assise, i tre imputati  restano in stato di libertà: i giudici dispongono per loro il soggiorno obbligato in altre località: Imperante da Campagna al quartiere di Bagnoli a Napoli; Schiavo da Sala Consilina nella zona di Fuorigrotta; La Rocca da Eboli a Pozzuoli.

Salvatore La Rocca, durante gli interrogatori, crolla facedo i nomi dei presunti colpevoli dell’omicidio. Il giovane ha poi ritrattato, rivelando di essere stato picchiato e torturato dai carabinieri. Al giovane viene contestato il reato di occultamento di cadavere e punito a 5 anni di reclusione. Gli altri vengono tutti condannati all’ergastolo con l’aggravante di aver compiuto l’omicidio con lo scopo di occultare la violenza carnale. Furono escluse altre le aggravanti di sevizie e l’omicidio delle bambine durante la violenza, come riportano durante l’interrogatorio, sostenendo che “alle loro urla e all’emoraggia di Barbara durante lo stupro, i regazzi, reagirono massacrandole di botte, poi le accoltellarono e le cosparsero di benzina”.

Dopo la condanna i ragazzi vengono di nuovo scarcerati. Durante il processo del 9 ottobre del 1986, i tre imputati erano assenti in aula quando la Cassazione legge un verdetto che rivela il contesto macabro nel quale si consumò il delitto:

“In quel quartiere dormitorio  il cui sottosviluppo culturale e degrado ambientale è emerso in tutta la sua pregnante portata dalla indicazione di comportamenti, abitudini di vita, consuetudini ed anomalie di ogni genere emersa dalle indicazioni certamente genuine, spontanee e disinteressate della folta schiera di persone, grandi e piccine, che via via venivano esaminate dai carabinieri per far luce sull’orrendo delitto”

Infatti Ponticelli e’ uno dei quartieri con un alto tasso di criminalita’, spesso di matrice mafiosa, che ha contribuito al degrado al quale si trova. Nello stesso anno accade anche un altro fatto: Luigi Anzovino, il fratello di un testimone-chiave del processo per il massacro di Ponticelli, si è suicidato, il 28 gennaio del 1986, lanciandosi nel vuoto dinanzi ai carabinieri che intendevano arrestarlo. Luigi aggredì sua sorella accoltellandola undici volte, ma come Ciro, Giuseppe e Luigi Schiavo era stato scarcerato per decorrenza dei termini di custodia cautelare.  Suo fratello minore era amico di Barbara e Nunzia e frequentavano “ragazzi che non erano del quartiere”, riconoscendo in Giuseppe La Rocca, quel “Tarzan con le lentiggini” come lo chiamavano i bambini che frequentava Nunzia. Inoltre, tre anni prima, Luigi era stato fermato dalla polizia poche ore dopo il ritrovamento dei cadaveri delle bambine. Quattro mesi prima, invece, era stato arrestato per “atti di libidine violenta” contro un tredicenne. Fu rilasciato poiché dimostrò la sua innocenza. Poi, due mesi dopo, fu arrestato di nuovo per aver accoltellato sua sorella diciottenne.

Il 27 giugno del 1987 i tre furono condannati definitivamente e reclusi nel carcere di Spoleto. La corte di Appello di Napoli respinge la richiesta avanzata dagli imputati di revisionare il processo, loro cominciano uno sciopero della fame, annunciando di voler ricorrere in Cassazione, ma quest’ultima la respinge.

Tra il 1999 e il 2012, emergono nuove testimonianze che scagionano i presunti assassini. I  loro  avvocati  presentano  una  nuova  istanza  di  revisione  del processo spiegando che “dieci persone forniscono un alibi ai tre condannati, nel corso di una conferenza stampa a Roma – assicurano in sostanza di averli visti tra le 20 e la mezzanotte di quel 2 luglio del 1983, mentre la ricostruzione processuale stabilisce proprio intorno alle 20 l’ora del delitto [...]“Altre 8 persone sono invece passate nelle stesse ore nel luogo in cui i corpi furono bruciati, secondo la sentenza, poco dopo le 20. Ma non hanno visto nulla. E’ una dimostrazione che i tre sono innocenti e che il colpevole, probabilmente uno solo, si trova in libertà”.

Inoltre, alcune prove scientifiche, come la tempistica di incendio dei cadaveri, ha rilevato l’ora del delitto:

- L’arma in base al numero delle ferite, alla superficialità  delle  stesse  ed  alle  zone  vitali  non  colpite,  sottolineando anche che a suo giudizio le ferite erano state prodotte da un coltello a serramanico (e non dal «ferro» trovato sul posto);

- Nel bagagliaio della 127 non fu trovata alcuna traccia di sangue, pur avendo i giudici affermato che con quel mezzo vennero trasportati i cadaverini trafitti con oltre trenta coltellate;

- Non si conosce l’arma con cui le bimbe furono massacrate;

- I giudici ritennero che il luogo del delitto fosse un campo coltivato e recintato appartenente ai signori Busiello, che però nei giorni successivi
dichiararono ai carabinieri di non aver rinvenuto alcuna traccia sul loro campo e che essi rimasero a lavorarvi sino almeno alle 20 e 30;

Insomma, ci sarebbe stato un grave errore giudiziario, forse addirittura un atto voluto. Della storia e dei buchi neri di quella ’inchiesta si è occupata la giornalista napoletana Giuliana Covella, autrice del libro L’uomo nero ha gli occhi azzurri – La storia di Nunzia e Barbara, pubblicato da Guida editore e uscito da qualche settimana. Il volume è stato allegato alla richiesta di revisione del processo. Per coincidenza, mentre Covella scriveva, gli inquirenti si stavano occupando del caso.

«Ancora oggi mi tornano alla mente le immagini diquella orribile vicenda e i volti dei tre ragazzi, che, mandati al soggiorno obbligato, nessuno voleva perché considerati bestie. Intendiamoci: è stato un delitto agghiacciante e la memoria di quelle povere bambine è sacra, ma ho sempre pensato che qualcosa nella vicenda giudiziaria non tornasse».

La giornalista, dopo aver pubblicato il libro e intervistando varie persone del quartiere per la sua inchiesta, ha ricevuto pressanti inviti ad abbandonare il progetto. Secondo la giornalista, ci sarebbe un intreccio tra camorra, politica, magistratura e forze dell’ordine.

“Barbara e Nunzia, 7 e 10 anni, erano come due sorelle. – scrive la Covella – Il loro tempo lo trascorrevano in mezzo a quei palazzoni del Rione Incis, uno dei tanti quartieri-dormitorio della periferia martoriata di Napoli.

Anche quel giorno fu così. “Non si è mai saputo quale fu la dinamica – mi precisa Andrea (uno degli avvocati, ndr.) mentre guida – non si sa come furono avvicinate, con quale scusa, con quali mezzi”. Di sicuro sorridevano Barbara e Nunzia, prima di giungere al più atroce dei supplizi. E come non avrebbero potuto sorridere due bambine che, in un tardo pomeriggio estivo, prima di rincasare per cenare con le proprie famiglie, si accontentavano di giocare in strada, l’unico spazio all’aperto concesso all’infanzia che (soprav)vive nei quartieri di Napoli Est? Qualcuno d’un tratto le portò via

“Chi si voleva proteggere? Chi si doveva proteggere? Forse un camorrista a cui piacevano i bambini e che quindi avrebbe rappresentato, per il Sistema, un’onta da scostarsi di dosso? In trent’anni non è stato ancora svelato il mistero”. Sono domande che non avranno mai una risposta. Il delitto più efferato degli ultimi trent’anni non solo perché la violenza di genere non risparmia nemmeno le bambine, ma c’è qualcuno che sta “coprendo” l’assassino, condannando dei ragazzi innocenti. La vicenda è grave su due fronti: l’omertà, la corruzione e l’impunità per delitti come questo ( che tanto ricorda la capitale dei femminicidi, Ciudad Juarez) e il fatto che tre ragazzi sono stati etichettati senza prove come “orchi”.

Fonti: QUI, QUI, QUI, QUI



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