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STUPRO D’ARTISTA | Nicola Samorì – La pittura è cosa mortale

Creato il 24 giugno 2014 da Amedit Magazine @Amedit_Sicilia

nicola_samorìPalazzo Chiericati, Vicenza, dal 18 aprile al 22 giugno 2014

Il mio utero è un enigma e non ho alcun metro

 per misurare la catastrofe che avvenne al suo interno.

Il danno fisico era comunque solo una parte del problema.

Paul Auster, Il paese delle ultime cose

di Massimiliano Sardina

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Il crimine estetico di Nicola Samorì va compreso in quel confine labile che separa il gesto creativo da quello distruttivo. Consapevole del potere che l’artista può esercitare sulle sue immagini, Samorì sceglie di spingersi fino in fondo con la determinazione del lucido impietoso carnefice. L’opera, designata vittima sacrificale, non è che il risultato di questa lotta, la testimonianza di una sofferta interazione. <<Ho sempre trovato difficile accudire una forma senza poi mutilarla>>, ha dichiarato l’artista, che ha ben chiare le direttive del suo complesso lavoro di ricerca. Samorì tenta di riconsegnare l’immagine a una condizione interiore, rifiutandone la sola parvenza effimera esteriorizzata, patinata e addomesticata, quindi incide l’opera, la apre, la scoperchia, ne solleva la pellicola pittorica e ne mostra il tristo rovescio. Il crimine è seriale, non verte su una sola immagine ma si allarga sull’intera storia dell’arte, per comprendere il passato e insieme per liberarsene definitivamente. Si ha come la sensazione che di Samorì ce ne siano due: uno che fa e uno che disfa, uno che scrive e uno che cancella, uno che delinea e uno che scarabocchia, uno che rifinisce e l’altro che infierisce, in una sorta di ritualistico tacito disaccordo. C’è il pittore cinque-seicentesco che impronta l’opera secondo i tradizionali canoni tardorinascimentali, e c’è l’artista contemporaneo, autolegittimato a intervenirci sopra con ogni mezzo. Uno appartiene al passato – a una vaga e remota stagione della storia dell’arte sospesa tra inquieto manierismo e suggestioni barocche – l’altro a quel presente che è già futuro (a quella contingenza già proiettata nel suo destino). C’è l’opera e c’è lo stupro perpetrato sull’opera. Distinguiamo due azioni ben distinte: quella che ha generato il dipinto e quella che lo ha abortito; la dicotomia non si stempera e non si amalgama, al contrario si espone nella sua violenta ambivalenza. Samorì realizza copie di opere del passato, note e meno note, ma dopo tanta amorevole cura le sconvolge con violenza, le dissacra con un gesto rapido e brutale. Individua quello che lui stesso chiama “il punto di rottura” e penetra nell’opera, la sventra e ne rivela gli umori occulti. Nella fase preliminare l’artista prepara il supporto, sovrapponendo strati su strati di colore, velatura su velatura, e solo in seguito l’immagine di superficie verrà adagiata, sdraiata su questo guanciale gonfio e farcito (e di qui quel particolare effetto cromo-purulento, che in certi casi trasforma le pitture bidimensionali in sculture tridimensionali).

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Gli interrati palladiani di Palazzo Chiericati: qual miglior location per un’esposizione di Nicola Samorì. Oscuro, tetro, caravaggesco, il suo repertorio iconografico allude apertamente a certi cupi stilemi del barocco funebre, alle lugubri allegorie delle vanitas e dei memento mori. Le figure abitano la notte, arretrano nel nero pesto e si guadagnano la scena illuminate da una luce fioca, tremula, cimiteriale; così la pelle, pur esibendosi dalla cangianza degli ocra alle gamme dei bianchi, trattiene un velo di tenebra, come impolverata dal buio. Cristi, martiri, anacoreti, figure allegoriche, ritratti, animali, nature morte… Samorì preleva a piene mani dall’age d’or della storia dell’arte del XVII secolo, e ne ripropone (debitamente riformulate) certe costanti iconografiche. Alla pratica anacronistica del recupero e del ripristino segue, come abbiamo già osservato, quella masochistica del rigetto e della negazione. Samorì aggredisce l’opera con i mezzi stessi della pittura, la assale e la affronta armato di pennelli e di colori, o tutt’al più a mani nude: trafigge, preme, lesiona, scortica, sporca, annerisce, inguacchia, imbratta porzioni di superficie con campiture piatte o scioglie la materia pittorica con spugne imbevute di solventi o acqua ragia. Le dinamiche sono quelle della damnatio memoriae e dell’iconoclastia. Se Duchamp mette i baffi alla Gioconda, gesto irriverente in chiave dada verso l’arte accademica e tradizionale, Samorì estende lo scarabocchio quasi all’intera superficie pittorica; più che un segno quello di Samorì è uno sfregio, uno sbrego, una lacerazione, l’impronta grondante di una ferita.

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Che la pittura sia “cosa mortale”, come recita il titolo della mostra vicentina, Samorì sembra ribadirlo con rinnovata convinzione e sfacciato compiacimento in ogni opera. All’arte aulica atemporale che ambisce a un’illusoria eternità, Samorì oppone un’arte vulnerabile, transitoria, fragile, marcescibile, sottoposta ad attacchi sia esterni che interni. Scampata al naufragio, sopravvissuta al pestaggio, l’opera esibisce orgogliosa le sue stigmate e in alcuni casi letteralmente perde i pezzi (sebbene apposite teche di plexiglass tentino senza successo di contenere la dispersione). Percossa, torturata, mutilata l’opera assimila il supplizio tanto nella sua struttura fisica quanto nella sua superficie estetica, anzi è proprio l’azione devastatoria a fissare la congiuntura esteriore e l’identità riposta dell’immagine. Pur se offesa e irrimediabilmente oltraggiata, pur se deturpata e consegnata all’oscurità, l’opera trattiene una sua bellezza, un suo fulgore, alla stregua di un fiore spetalato per metà. Il destino ineluttabile dell’opera d’arte è lo stesso dell’uomo: nulla, ci ricorda Samorì, può sottrarsi al ciclo, al declinare lento della curva ultima. Queste atmosfere smaccatamente luttuose, umbratili, gotiche, talvolta finanche splatter, richiamano alla memoria tutto il repertorio iconografico dei vari martiri cristiani, – San Lorenzo arso sulla graticola, Sant’Agata mortificata nei seni, Santa Lucia orbata, Santo Stefano lapidato, San Sebastiano trafitto… fino a Cristo crocifisso – ma anche storie pagane come quella di Marsia scorticato. In oli su lino come Interno assoluto, su tavola come Reverso, su rame come Il pasto o su specchio come La vita umana l’epidermide pittorica si accartoccia su se stessa come in seguito a un’ustione.

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L’opera soffre, patisce e sanguina come un essere senziente. Sfigurate, le figure più che vittime sono vittimizzate, condannate a mostrare la superficie divelta e tutto quello che è sepolto sotto la patina. Le escoriazioni portano a galla il colore, che è sangue, carne, muscoli e ossa della creazione artistica. La materia cromatica (specie in opere come Pillow o Pittore) erutta sul derma dell’opera assumendo consistenze lattiginose e dense assimilabili sia ai liquori fisiologici che ai getti cremosi dei tubetti del colore ad olio; a questo proposito, Samorì sembra aver individuato una significativa similitudine tra la malleabilità del colore e la manipolabilità dell’immagine. In Interno-Jonah la liquefazione dello zigomo porta a galla gli umori sottocutanei: la lacerazione schiude a un’altra dimensione meta-materiale, al di là del quadro, al di là del soggetto religioso incarnato; quanto mai doveroso un parallelo con Alberto Burri e Lucio Fontana, e con tutti quelli che hanno infierito (non solo simbolicamente) sul limite oggettuale dell’opera d’arte. In opere come Buen Retiro o Blessing intervengono rispettivamente l’aspirazione (leggi risucchio) e la rarefazione: i volti perdono i connotati, la fisionomia, l’identità, ma le sagome acefale rendono presente l’assenza. In Nubifregio – un rimando al San Paolo eremita di Mattia Preti – la parte alta del dipinto è censurata come con una secchiata di colore sgocciolante, una grande macchia bigia che è insieme nube e sfregio.

Come acutamente rileva Alberto Zanchetta nelle note critiche del catalogo, Samorì opera due omissioni rispetto al dipinto originale di Preti: il Sant’Antonio sullo sfondo e il pennuto cui l’anacoreta volge il capo (la leggenda narra che San Paolo sopravvisse per decenni grazie a dei pezzi di pane portatigli da un uccello benedetto, un corvo poi declinato iconograficamente in colomba). Samorì, scrive Zanchetta <>, una manna pittorica, un rain-dripping, che sostituisce l’intervento divino con quello artistico. Tutto ciò che vuol spacciarsi per celeste e immortale nelle opere di Samorì subisce un drastico ridimensionamento: l’infinitamente vago ha la meglio su ogni dichiarazione d’onnipotenza. Si veda Scomparsa in Dio (Apoteosi del vago), una sacra icona destrutturata dal gesto-impronta demiurgico dell’artista. In L’Abietto venerabile Samorì ribalta l’icononografia mariana, sostituendo la discesa rovinosa all’Assunzione. In About Africans, Pillow e L’imperterrito i due Samorì sembrano dividersi nettamente il territorio: da un lato il curatore (il meticoloso copista), che con dovizia e amorevolmente porta a compimento l’opera, dall’altro il corruttore che mette il dito nella piaga, ferendo, sfregiando, ma al contempo rivelando l’intima struttura dell’elaborazione artistica.

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Potremmo tranquillamente usare quest’immagine: un bambino erige castelli di sabbia e un altro, dispettoso, si diverte a calpestarglieli; in realtà, come già abbiamo osservato, l’accordo è preso a monte (i bambini giocano con regole prestabilite). Qui i volti letteralmente vomitano, rimettono, esplicitano l’implicitato, rigettano la stratificazione in superficie, come accade in certi fenomeni geologici. L’eruzione cromatica – fluida e materica come solo sa esserlo la pasta del colore a olio – non elude i toni dello splatter, ma li contiene; le cancellazioni samoriane rispondono a una precisa estetica, non inficiano casualmente: i tagli sono chirurgici e veloci, e così le abrasioni, le amputazioni e gli scorticamenti (sotto questo punto di vista Samorì è quasi decorativo). È sui volti che si concentra il maggior accanimento, sugli occhi, sulla bocca e non di rado sull’intera fisionomia. Il ritratto si ritrae, arretra, recede, si sottrae alla visualizzazione e al riconoscimento. Osservando i volti-rivolti di Manto Minimo, La faccia del figlio e Rame riluttante sembrano risuonare i versi di Sul proprio ritratto di Juana Inés de la Cruz: <<Questo che vedi, inganno colorito, che dell’arte ostentando le bellezze con falsi sillogismi di colori, è un inganno dei sensi ben studiato; questo, nel quale la lusinga ha osato della vecchiaia eludere gli orrori, e sconfiggendo del tempo i rigori trionfare sugli anni e sull’oblio, è un artificio vano della cura, è un fiore delicato esposto al vento, è una difesa inutile dal fato: è scrupolo impiegato vanamente, è un affanno fugace e, ben guardato, è cadavere, è sabbia, è ombra, è niente.>>  La pratica iconoclastica sovverte i generi pittorici e traspone, anche se parzialmente, la figurazione su un meta-livello di astrazione. In L’imperterrito emerge qualcosa di baconiano, uno slittamento, uno smottamento dell’immagine, così come in La vertigine, quest’ultimo senza dubbio uno dei dipinti più colti e affascinanti della produzione di Samorì. Protagonista de La vertigine sembra essere la sagoma di una sonnambula. Scalza, con le scarpe in mano, ricoperta di veli vagamente nuziali, infagottata e stropicciata nella trama stessa del tessuto, colta forse nell’istante che precede il salto, la caduta a strapiombo in gola alla notte. Una vertigine, per l’appunto, un lampo di bianco spettrale nell’obscuro inconoscibile, un’apparizione, una fantasmagoria. Figure umane o animali o nature morte, per Samorì fa poca differenza. In Scoriada, opera monumentale di quattro metri con taglio a sesto acuto, un cavallo trotta putrefacendosi, pelle e ossa, una sorta di cerea carcassa equestre; anche Leprosario inscena una decomposizione pittorica, e così Carnera, dove il colore simula l’infestazione delle larve sarcofaghe. Tuttavia la finitudine non è il solo asse portante nella ricerca di Samorì. L’artista genera opere complesse, espugnabili solo attraverso più chiavi di lettura così come dimostrano le singole titolazioni (talvolta dei piccoli rebus). Di certo Samorì non nasconde la sua inquietudine. Crea, distrugge e mostra. Infilza il pennello nella piaga.

Massimiliano Sardina

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