di Michele Marsonet. Nell’ultimo decennio del secolo scorso conobbero un notevole successo le tesi del politologo americano Francis Fukuyama, secondo il quale il crollo – allora appena avvenuto – del marxismo faceva intravedere la “fine della storia”. Eliminato il suo grande nemico, il liberalismo veniva presentato come l’unica proposta di organizzazione politico-sociale realmente percorribile, ragion per cui ci si poteva attendere in tempi brevi una sua diffusione a livello planetario. Il saggio “La fine della storia e l’ultimo uomo”, pubblicato in Italia da Rizzoli, divenne un bestseller e fu molto discusso non solo in ambito accademico, ma anche sui mass media. Da allora le posizioni di Fukuyama sono molto cambiate. Dapprima guru del pensiero conservatore americano e consigliere politico di Presidenti repubblicani, si è poi trasformato in critico severo degli interventi militari in Irak e Afghanistan voltando le spalle al movimento neocon di cui era uno degli esponenti di punta. Il suo ultimo libro, “The Origins of Political Order”, cerca di capire come gli esseri umani siano riusciti a superare le loro affiliazioni tribali dando vita a società politiche.
Un progetto, insomma, assai meno ambizioso, più culturale che ideologico, e in quanto tale non destinato a suscitare un dibattito ampio come quello degli anni ’90. Eppure Fukuyama merita ancora attenzione, per quanto datate le sue idee possano apparire oggi. Partiamo dunque dalla superiorità della visione del mondo liberaldemocratica rispetto a tutte le posizioni ideologiche con essa conflittuali. Circa il comunismo di origine marxista resta poco da dire, ma è assai difficile sostenere un “inevitabile” diffondersi dei modelli di democrazia liberale a livello planetario.
Complicato, infatti, diventa il discorso quando dal comunismo si passa a esaminare visioni del mondo che nulla hanno a che fare con la classica dicotomia Est-Ovest. Un esempio ovvio ci viene fornito dal complesso mondo islamico, nel quale si mescolano un crescente fondamentalismo religioso ed elementi di rivalsa nazionale. Molte sono le illusioni diffuse in Italia e altrove dalle cosiddette “primavere arabe”, poiché si è visto che esportare la democrazia può non essere un’operazione conveniente per chi si colloca dal punto di vista del realismo politico. Gli occidentali non riescono per esempio a comprendere perché basti spesso l’appello al panarabismo e alla tutela dei luoghi santi dell’Islam per infiammare grandi masse.
Forse l’Occidente potrebbe, se davvero lo volesse, imporsi con la forza delle armi, ma le nazioni che lo compongono risultano – proprio per il fatto di essere delle democrazie liberali – deboli strutturalmente; i governi debbono rispondere ai rispettivi parlamenti e, ancor più, a un’opinione pubblica poco disposta ai sacrifici, alla perdita di vite umane ed estremamente influenzabile dai mass media. A ciò va aggiunto che, quando si prescinda da Europa e Nord America, la superiorità del modello di vita occidentale non può essere data come acquisita; per restare al mondo islamico, detto modello viene ritenuto immorale e ingiusto, e il ricorso alla guerra per combatterlo è giudicato del tutto legittimo. L’Occidente, dunque, è ben lontano dall’aver vinto in modo definitivo la sua scommessa ideologica. Ha vinto una battaglia – quella contro il comunismo – che era ieri la più importante, ma parlare di “fine della storia” sembra senz’altro fuori luogo. L’ottimismo di Fukuyama si può facilmente rovesciare; perché non ritenere che l’Occidente, come alcuni oggi sostengono, abbia ormai raggiunto il culmine del proprio sviluppo, imboccando di conseguenza il sentiero di un lento tramonto? Anche questa, al pari di quella difesa dallo studioso americano, è una tesi indimostrabile. Tuttavia la storia insegna che l’ottimismo addormenta la volontà, mentre una certa dose di pessimismo può aiutare a valutare meglio i pericoli nascosti.
Per non parlare del caso cinese, il più interessante perché difficilmente inquadrabile usando categorie politiche tradizionali. Abbiamo qui un modello che è stato definito “capitalismo autoritario”, e che ha prodotto uno sviluppo economico impetuoso tanto da consentire al regime solo nominalmente marxista vigente in Cina di portare il paese a un relativo controllo dei mercati finanziari. Se l’Occidente ha ancora una speranza di poter alla fine prevalere, questa risiede soltanto nell’individuo, colonna portante del liberalismo. Intendo dire che chi si reca spesso in Cina o ha a che fare con le grandi masse di giovani cinesi che vanno all’estero per studiare, percepisce subito uno stato di insoddisfazione latente e al contempo profonda. In altri termini, la potenza economica e la soddisfazione finanziaria vengono pagate con la soppressione della libertà individuale. E questo è pericoloso in un’epoca come la nostra, quando Internet ha raggiunto una diffusione globale e non può mai essere interamente controllato.
Penso sia su questo piano che le tesi di Fukuyama possiedono ancora una chance. Quando la comunicazione diventa globale, è sempre più arduo per i regimi tirannici isolare i propri cittadini dai loro simili che vivono in altri contesti socio-politici. La libertà di informazione, di parola e di pensiero diventa una tentazione irresistibile. Certamente il liberalismo non può essere considerato la conclusione della storia, anche se pensatori pur grandi come Popper hanno a volte dato l’impressione di sostenere proprio questo. La giustificazione del liberalismo non è facile. E’ come camminare costantemente sul filo del rasoio: da un lato, se si afferma che è la migliore forma di organizzazione politico-sociale si rischia di svalutare tutte le altre. Dall’altro, se non si cerca di giustificarlo si ha il relativismo totale alla maniera di Richard Rorty, con la conseguenza che è impossibile fornire buone ragioni per scegliere l’ordinamento liberale piuttosto che un altro. Ci troviamo, dunque, tra una sorta di Scilla e Cariddi teorica.
L’unica via d’uscita resta quella di accentuare la flessibilità della visione liberale del mondo, accettando la sfida di coloro che la contestano. Accettare la sfida, tuttavia, significa essere pronti a combattere altre visioni che mirano ad annullare ruolo e libertà dell’individuo. Questo significa che il liberalismo, dottrina apparentemente debole in teoria ma forte sul piano pratico, ha bisogno di intellettuali che sappiano esaltarne il valore. Basarsi su considerazioni meramente economiche non è più sufficiente, come il già citato caso cinese dimostra ogni giorno che passa.
Featured image, Francis Fukuyama.