40 anni Vergine
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Zoolander
Ben Stiller è un beota, o almeno così vuole far credere, impegnandosi con grande passione. Edifica la sua fortuna sulle mossette facciali, sembra fatto di nylon. E’ simpatico, nonostante non si veda quasi mai ridere. Anzi, è proprio questo il suo pregio: quando si mostra divertito, stuzzica poco, pochissimo, di contrasto, nei casi in cui si trova ad essere sbeffeggiato, deriso, e quando volteggia nelle quattro peripezie genuine, imprescindibili nei suoi film, stimola una reazione più piacevole. Sembra affetto dalla “paperinite”, con un linguaggio più tenace, vivace, da rammollito. Non è un eroe, è un attore sull’orlo del precipizio, impegnato nel solito film da anni ed anni, uno spaccacuori disastrato e molto anonimo, il guardiano di un museo “animato”. Con “Grrenberg”, recensito di recente, il salto di qualità. In molti film, è l’outsider, il nerd, senza la fama definita e senza la medesima consapevolezza di esserlo. Zoolander è un soggetto di cui l’attore è anche regista.
Forse il miglior Stiller. Sicuramente lontano dallo stereotipo dell’ultimo film che porta il suo nome con il credit director, “Tropic Thunder”. Non molto alto, capelli a spazzola, vestiti leopardati, tigrati, zebrati, fascia attorno alla zucca ed espressioni molto “baby” succulente e lolitiana, la Blue Steel, la Ferrari, la Tigre, la grandiosa Magnum, in grado di bloccare la stella ninja, creando uno scudo così possente che quello spaziale, a confronto, sembra lesso. Movenze fotocopiate e divenute emblema di un “way of living”, tuttora. Più che varie espressioni, un’unica: la bocca arricciata, lo sguardo nell’obiettivo, le guance, volutamente, sgonfiate. Stiller è un modello, uno scambista (di consonanti), una mezza calzetta, uno che ha ripetuto, molte volte, la seconda elementare e che, già da piccino, aveva nel cucchiaio della mensa compreso della sua propensione naturale per essere pagati solo perchè belli, “belli in modo assurdo”. Eppure ha un successo indomabile, placato dall’ascesa di Owen Wilson biondo, meditativo, sportivo, hippy quanto basta, integrato nella passerella, più per che capriccio che per reale volontà. Riuscirà a strapparsi le mutande di dosso, in contatto, forse, da sciamano, con una realtà extrasensoriale, non calando giù i suoi jeans strettissimi. La trama non è innocua, l’industria della moda sarebbe responsabile di tutti gli omicidi politici degli ultimi duecento anni. Rilettura arguta. Due scene: una fornitura di benzina, molto sessuale, e mortuaria e la citazione delle scimmie e dell’ossi dell’Odissea di Kubrick, visiva e filosofica. “Relax”, dei Frankie Goes To Hollywood, e guarda. “Sono bulimica. E allora leggi nel pensiero?!”