Dall’Italia alla Nigeria e all’Eritrea passando per Teheran
Lo testimonia per esempio una notizia che del marzo 2010 si è guadagnata una certa attenzione sulla stampa italiana: l’arresto – con detenzione prima in carcere e poi passaggio ai domiciliari e permesso, in alcuni casi, di lasciare di giorno l’abitazione per andare al lavoro – di sette persone, cinque italiani più o meno legati all’industria bellica e alle transazioni estere e due iraniani (tra cui un giornalista accreditato presso la sala stampa estera di Roma. Altri due mediorientali raggiunti da mandato di cattura si sono dati alla latitanza). Per loro l’ipotesi reato era “associazione a delinquere finalizzata all’illecita esportazione verso l’Iran di armi e sistemi militari di armamento, in violazione del vigente embargo internazionale, con l’aggravante della transnazionalità”.
Era l’operazione Sniper, condotta dalla guardia di finanza sotto la guida del procuratore aggiunto di Milano Armando Spataro. E quell’operazione aveva riportato l’attenzione, per quanto a focus ridotto sulle pagine dei giornali, sul traffico di armi che lega l’Italia e alcuni paesi sottoposti a blocchi internazionali, tra cui la repubblica fondamentalista di Mahmud Ahmadinejad. Che, dal canto suo, aveva vivacemente protestato contro l’indagine milanese e aveva invitato il governo italiano a darsi da fare perché i connazionali venissero liberati.
Sul blog Il mio Iran di Panorama, in proposito faceva notare Farian Sabahi, giornalista e docente di storia dei Paesi islamici e culture e politiche dell’Islam all’università di Torino:
Il problema è il solito: l’Italia è il maggior partner commerciale dell’Iran nell’Unione europea e tra gli articoli oggetto di esportazione ci sono evidentemente anche le armi. Il paradosso è che da una parte il Bel Paese fa business con Teheran, vendendo di tutto, e dall’altra fa pressione affinché siano applicate maggiori sanzioni sul programma nucleare dei pasdaran. La solita ipocrisia?
Questa vicenda giudiziaria, per quanto rilevante, va però calata in un contesto più ampio. Gianni Biondani, sull’Espresso, venti giorni più tardi la metteva per primo in collegamento con un fatto precedente. Era quello che il 16 dicembre 2009 aveva visto l’arresto (e il successivo patteggiamento per corruzione) di Pier Gianni Prosperini, ex assessore regionale della giunta lombarda di Roberto Formigoni. Dai computer di un collaboratore dell’ex castiga-immigrati, erano saltati fuori elementi che facevano presumere un altro traffico di armi con un altro Paese sotto embargo, l’Eritrea, sottoposta a sanzioni delle Nazioni Unite a causa (anche) del sostegno fornito ai ribelli somali. Il commercio sarebbe avvenuto tramite una rete di offshore che poi ricompensava il politico lombardo caduto in disgrazia. Secondo il quale, tuttavia, quelle erano armi sportive e da caccia destinate ad amici suoi. Nulla a che vedere con strumentazione da guerra.
Un ulteriore pezzo da aggiungere – forse – alle vicende di cui sopra è molto più recente e riguarda la Nigeria. Dove a inizio novembre 2010, nel porto di Apapa (Lagos), vengono trovati e sequestrati di tredici container stipati di armi. Destinatari sarebbero i gruppi integralisti della zona, in alcuni casi d’ispirazione qaedista, i ribelli senegalesi della Casamance e i commandos che operano sequestri di persona nel delta del Niger. A finire nei guai due ufficiali iraniani, Azim Agajany e Sayed Tahmasebi, e un nigeriano, Ali Abbas, conosciuto anche come Abu Geja. Per loro, come nel caso degli arresti italiani, politica e diplomazia hanno fatto il diavolo a quattro per riportarli a casa, nonostante le indagini avessero dimostrato il loro diretto coinvolgimento nei commerci illegali avvalendosi della copertura di società estere, anche europee (inglese e francesi).
E saltano fuori collegamenti con la criminalità organizzata
Questi sono solo alcuni dei tasselli che hanno consentito di confermare ipotesi di poco precedenti in merito agli spostamenti di armi sullo scacchiere del Mediterraneo, da e verso il Medio Oriente, fino a zone più profonde del sud-est asiatico, dato che l’Iran è considerato un Paese cerniera con alcune delle zone più calde del pianeta, come le repubbliche ex sovietiche confinanti, l’Afghanistan, il Pakistan e il Golfo Persico. Derrate alimentari e prodotti fitologici per l’agricoltura le merci più utilizzate dentro cui celare i carichi di armi e poi il “trucco” per gabbare i controlli doganali (o almeno renderli meno efficaci) sarebbe quello di evitare i viaggi diretti preferendo scali e trasferimenti in più porti intermedi.
Lungo le cose italiane, Gioia Tauro sembra essere uno degli approdi maggiormente battuti. Ma Genova sarebbe un’altra città con un ruolo centrale, dato che fin dal 2009 qui si sono concentrati accertamenti dell’autorità giudiziaria – tra cui l’operazione Pandora – a carico di una serie di società iraniane (alcune sotto il controllo di altre aziende registrate in Germania) ed italiane. Da questi accertamenti sono emersi anche elementi di contatto con il clan ‘ndranghetista dei Mamone e con ditte che si occupano, guarda caso, di smaltimento dei rifiuti (o dello stoccaggio delle scorie radioattive della centrale nucleare in dismissione di Caorso), finite già nel 2002 nel mirino della Direzione investigativa antimafia (Dia).
E se a carico delle società iraniane pendeva dal 2008 una rogatoria statunitense, un anno prima Peter MacKay, ministro della difesa canadese, aveva lanciato un allarme dicendo che passava proprio da Teheran il rifornimento d’armi agli afghani in senso anti Isaf (International Security Assistance Force, nome della missione in Afghanistan). È caduto ovviamente nel nulla l’invito al governo iraniano a sorvegliare e porre rimedio alla situazione.
Nello stesso anno – il 2007 – il quotidiano britannico Guardian puntava sulla centralità dell’Italia per l’esportazione illegale di armi, questa volta verso l’Iraq. Una centralità confermata da un’indagine della direzione distrettuale antimafia di Perugia – l’operazione Parabellum – nata contro il narcotraffico e che invece aveva portato a mettere le mani su una fornitura di 105 mila fucili e un giro di denaro superiore ai 20 milioni di euro. In questo caso non solo si ribadiva la rilevanza della posizione geografica della penisola, la solita lingua di terra insinuata nel cuore del Mediterraneo, che faceva dell’Italia il trampolino ideale anche per certi traffici. Ma aveva consentito di capire il ruolo giocato da sedicenti imprenditori tricolori nel settore che, avvalendosi di contatti in Bulgaria, avrebbero consentito complessivamente il trasporto di centomila Ak-47 e di diecimila mitragliatori (in barba, oltre agli embarghi, anche agli accordi militari che legano Italia e Stati Uniti in Iraq).
Dal “dual use” alla “Rak Free Zone”: strumenti a disposizione dei trafficanti
Ma laddove inequivocabili traffici non vengono affondati in soia o cereali, la formula magica per aggirare i divieti è il cosiddetto “dual use”, nodo attorno a cui è ruotata anche l’operazione Sniper di Armando Spataro. Si tratta di un’espressione con cui vengono etichettati prodotti non specificamente nati per l’industria militare, ma che possono trovare applicazione anche in settori differenti. Stiamo parlando di prodotti chimici, pezzi di ricambio meccanici, componenti elettroniche e dispositivi impiegati nell’ambito aerospaziale.
Il problema posto dal “dual use” venne affrontato nel 2008 quando la procura della Repubblica di Como aveva sequestrato alla dogana di Chiasso oltre duemila chilogrammi di materiale metallico da impiegare tanto nell’industria civile che in quella militare. Dopo le perizie del caso che avevano attestato la presenza di una lega di cromo e nichel, il dubbio sul possibile impiego in campo bellico venne definitivamente sciolto dell’assenza della documentazione ministeriale che deve suggellare impieghi che non contemplavano gli armamenti.
Altro sistema, denunciano alcune organizzazioni per i diritti umani, come la “non convenzionale” Secondo Protocollo, sarebbe quello di approfittare di status particolari e accordi internazionali recepiti a livello nazionale. Un esempio sarebbe la cosiddetta “Rak Free Zone” degli Emirati Arabi Uniti, con questo scopo:
Permette a chiunque di aprire una ditta [...] in poche ore e di chiuderla in pochi minuti senza tante formalità. Quale miglior sistema per effettuare triangolazioni con quei Paesi sottoposti a embargo [...]? Il discorso [...] è semplicissimo. Se una ditta con sede (per esempio) negli Stati Uniti vuole vendere qualcosa a un Paese sottoposto ad embargo (Iran, Sudan, Cuba, eccetera), apre [...] a Dubai un’azienda fittizia [...]. Dopo di che non deve far altro che “vendere” (anche solo virtualmente) la merce che vuole alla ditta [di] Dubai da dove poi può essere spedita in tutto il mondo, compresi quei paesi sottoposti a embargo. [Quindi] la ditta a Dubai viene chiusa e nessuno riuscirà mai a risalire alla fonte.
Sarà di certo un caso, quindi, che il 19 gennaio 2010 sia entrato in vigore un accordo di cooperazione nel settore della difesa tra Italia ed Emirati Arabi. Accordo recepito con una legge del 23 dicembre 2009 malgrado risalga al 2003 e che prevede, tra l’altro, “esportazioni e importazioni di armamenti; industria della difesa, altri materiali e ricerca scientifica; questioni relative all’ambiente ed inquinamento causato dalle attività militari”.
(Questo articolo è stato pubblicato sul numero in edicola questo mese della rivista Su la testa)