Omar Di Monopoli è uno dei più apprezzati scrittori noir del panorama nazionale e nella raccolta di racconti Aspettati l’inferno (Isbn Edizioni, pp. 176, euro 18) conferma la sua capacità di confrontarsi con la scrittura di genere, reinventandone le norme stilistiche: come sempre nelle sue opere, il dialetto e il gergo salentino sono impastati senza stridore con un lessico ricercato, in una sintassi ipotattica dal ritmo comunque incalzante.Tuttavia, se i suoi precedenti romanzi sono tutti riconducibili al thriller e all’hard-boiled, alcuni dei testi di Aspettati l’inferno sperimentano nuovi generi in cui irrompe l’irrazionale: il finale di Sputazza from outer space vira verso la fantascienza, mentre sono degli horror Zanne, Figli della palude e Rave party - quest’ultimo è una rilettura in salsa salentina del celebre film Tremors, di Ron Underwood.I racconti più convincenti, però, sono quelli dal taglio narrativo a cui Di Monopoli ci ha abituato, ossia in cui uno scenario pugliese degradato fa da sfondo a rese dei conti tra criminali e a episodi di gratuita brutalità. Tra questi spiccano Nostro Signore l’Uomo Purpu (già pubblicato nell’antologia Meridione d’inchiostro), storia di mare, di malavita e di superstizione, ma anche del legame fortissimo tra due fratelli; Cenere alla cenere, che vede uno sciamano alla corte dei caporali nelle piantagioni del Gargano; Maledetta Maciàra (già pubblicato nell’antologia Sangu), che narra di una fattucchiera di paese incolpata dell’assassinio di un bambino - ma come sempre il finale riserva più d’una sorpresa. Davvero riuscito, infine, il racconto che dà il titolo alla raccolta, Aspettati l’inferno, in cui un impacciato ragazzo si trova a fronteggiare dei delinquenti per proteggere un’avvenente ragazza russa capitatagli tra i piedi; si tratta di una storia ben architettata, con momenti comici, sangue a volontà e un incipit insolitamente romantico:«Me mi bastava solo di guardarla.
Dormirci affianco senza disturbare, le mani a posto, non una parola, solo riempirmi il naso del profumo suo.
Portarci il caffè bollente di mattina presto, per vederla girarsi tra mille strimìgni dall’altra parte, sotterrandosi nelle coperte come ’na vagnuncèdda che non le sconfinfera di andare a scuola.
E io zitto. Muto. Ad aspettare.»(l'originale qui)