di Michele Marsonet. Leggendo il fiume (del resto prevedibile) di articoli e necrologi dedicati a Umberto Eco dopo la sua scomparsa, vien voglia di fare il bastian contrario. Senza nulla togliere – per carità – all’importanza del personaggio e alla sua inesauribile capacità di affascinare il grande pubblico.
Eco è stato, probabilmente, l’intellettuale italiano più conosciuto all’estero, e mi è capitato spesso di incontrare docenti universitari stranieri che conoscevano la nostra letteratura contemporanea soprattutto grazie a lui. E questo è senza dubbio un merito, come lo è pure il fatto di aver avvicinato a temi assai difficili innumerevoli persone del tutto refrattarie alla cultura.
Un esempio? Dopo la pubblicazione de “Il nome della rosa” divenne all’improvviso popolare la disputa medievale sugli universali, e filosofi prima ignoti al pubblico come Guglielmo di Ockham – con il suo celebre rasoio inteso a tagliare gli enti inutili – acquistarono una inattesa celebrità postuma. Molti si scoprirono da un giorno all’altro “nominalisti”, pur essendo evidente che, a un esame attento, non avrebbero saputo fornire del nominalismo una definizione corretta e plausibile.
Seguendo le orme del personaggio principale del romanzo, il cui nome è non a caso Guglielmo (e interpretato nel film che ne seguì da un grande Sean Connery), il pubblico si tuffò con voluttà nella metafisica e nella filosofia del linguaggio medievali, che prima erano al massimo argomenti battuti da una ristretta cerchia di specialisti accademici.
La comparsa dei social network, contro i quali l’Eco dell’ultimo periodo sparava bordate micidiali, altro non fece che accentuare tale tendenza. Giacché, come il nostro autore puntualmente rimarcava, i suddetti social consentono di scrivere idiozie con una libertà che la carta stampata concede molto meno. E, aggiungeva con la sua ben nota ironia, gli autori delle idiozie sono spesso convinti di dire cose grandi.
A Umberto Eco va riconosciuto il possesso di una cultura immensa, e la capacità di comunicarla a tutti. Detta cultura aveva delle basi solidissime derivanti dai suoi studi universitari. Non bisogna infatti scordare che i suoi libri specialistici di semiotica sono tra i più citati al mondo, al pari dei lavori sull’estetica medievale. A lui dobbiamo pure, in Italia, la scoperta di Marshall McLuhan, autore di celebri slogan quali “villaggio globale” e “il medium è il messaggio”.
Né si possono scordare le sue analisi dedicate al ruolo dei mass media nella società d’oggi. Il saggio “La fenomenologia di Mike Bongiorno”, uscito negli anni ’60 del secolo scorso, resta al riguardo un esempio insuperato della sua abilità nel captare sul piano sociologico le trasformazioni indotte dal mezzo televisivo. E altrettanto per il celebre “Apocalittici e integrati”.
Una volta reso il dovuto omaggio aggiungo, però, che Umberto Eco scrittore è a mio avviso piuttosto noioso. Da filosofo e semiologo prestato alla letteratura, ho sempre trovato macchinose e ripetitive le trame dei suoi romanzi. Vale per quello più famoso, “Il nome della rosa”, ma anche per gli altri come “Il pendolo di Foucault”. Si ha l’impressione, leggendoli, di un saggista che si sforza di essere scrittore senza mai riuscirci pienamente. Molti riterranno tale giudizio un delitto di lesa maestà, ma sono convinto che tanti altri lo condividano.
E, per finire, aggiungo che la noia si estende anche a Eco inteso quale intellettuale impegnato politicamente. In questo campo le sue opinioni erano sempre e senza remore unilaterali, nel senso che il Bene stava senza dubbio dalla parte cui egli stesso aderiva, e il Male dall’altra. Di qui una certa ambiguità manifestata nel corso dei celebri “anni di piombo”, spesso percepibile anche nella rubrica settimanale “La bustina di Minerva” pubblicata dall’Espresso.
Penso sia utile, post mortem, rimarcare tanto gli aspetti positivi quanto quelli negativi di un personaggio che ha comunque avuto un ruolo rilevante nella cultura italiana degli ultimi decenni. Eco era autoironico, dotato di un senso dell’umorismo superiore alla media, e un coro unanime di lodi sperticate non l’avrebbe reso felice.